SENZA CENSURA N.36

marzo 2012

 

Occupy strikes back!

Alcune considerazioni iniziali sul movimento occupy negli USA

 

I rapporti sociali negli USA: class, race, gender, nature

Il compromesso sociale made in USA ha storicamente estromesso i nativi americani, la comunità afro-americana e i latinos, consolidando il razzismo istituzionale che domina la politica statunitense in cui la “linea del colore” è un elemento discriminante nella dinamica inclusione/esclusione per ciò che concerne le garanzie sociali complessive: lavoro, situazione abitativa, accesso all’istruzione, rapporto con le istituzioni.

Con l’esacerbarsi della crisi, anche i settori più garantiti della working class del pubblico e del privato sono soggetti ad una offensiva che ne mina le possibilità stesse di potersi organizzare all’interno del quadro delle attuali relazioni industriali per mantenere i propri standard di vita da “classe media”.

Il tasso di sindacalizzazione dell’intera popolazione lavorativa degli Stati Uniti è pari al 12%, tenendo presente che la sindacalizzazione nel settore pubblico è notevolmente maggiore rispetto a quella nel privato.

Un accordo sindacale non garantisce solo un livello salariale maggiore, ma la possibilità di una copertura sanitaria e pensionistica, proprio questi aspetti sono stati al centro di alcune importanti vertenze dal 2007-2008.

Il sindacato è il grande elettore del Partito Democratico che dipende dalle casse delle unions per la sua macchina elettorale.

Così la crisi de-integra porzioni sociali sempre maggiori, disintegrandone altre…

L’incarcerazione di massa dei giovani afro-americani e la militarizzazione della “comunità nera”  sono i tratti i più distintivi della dinamica dell’esclusione che perpetua la segregazione razziale nell’era Obama, mentre l’unica reale possibilità di accedere alla cittadinanza di immigrati latinos e di sfuggire alla ferocia degli apparati anti-immigrazione sembra essere farsi arruolare come “carne da cannone” per le imprese belliche statunitensi.

La marcata oppressione di genere e l’omofobia che si riflette fedelmente nelle componenti egemoni a livello politico-culturale del partito repubblicano, sono un altro pilastro dell’oppressione statunitense.

Recentemente una studentessa che propugnava durante una audizione al congresso la gratuità degli strumenti contraccettivi è stata insultata da un noto conduttore durante il suo show radiofonico, e invitata a filmare i propri rapporti sessuali mettendoli a disposizione sul web, visto e considerato che il governo dovrebbe pagare per le spese dei suoi contraccettivi!

Ma basta passare in rassegna le varie dichiarazioni dei candidati repubblicani per capire il paradigma che riflette fedelmente il brodo di coltura di una parte dell’elettorato repubblicano.

I continui attacchi alle scelte femminili in termini di contraccezione e di interruzione di gravidanza, le aggressioni a omosessuali e trans-gender, l’offensiva contro i comportamenti sessuali considerati “devianti”, dalla scoperta dell’ “AIDS” in avanti sono patrimonio consolidato della destra americana e coprono le aggressioni e gli attentati di individui e organizzazioni che non hanno smesso di credere nell’efficacia di un tradizionale strumento della american way of life: il linciaggio.

Al di là di una supposta inclinazione “green” dell’attuale sviluppo capitalistico americano, l’insostenibilità ecologica dell’attuale sistema ci viene drammaticamente ricordata dalle continue catastrofi ecologiche e “naturali” (di cui in realtà l’azione umana è la prima responsabile) di cui l’impero americano porta le maggiori responsabilità, perpetuando tra l’altro uno stile di vita (alimentazione, mobilità, urbanizzazione) insostenibile per la natura e le generazioni future.

La politica bellicista del governo statunitense ha bisogno di un consenso che ne legittimi le scelte all’interno del corpo sociale, questo consenso non può mantenersi solo attraverso la propaganda dei media ma ha bisogno di sicurezze relative per una parte della popolazione che si concepisce come “classe media” e non può essere trattata come coloro che sono tradizionalmente esclusi dal patto sociale, bersaglio delle varie guerre sul fronte interno lanciate a più riprese dagli apparati governativi.

Un movimento di opposizione alla guerra e un movimento di veterani le cui ragioni appaino pubblicamente contemporaneamente in molte città rimane tuttora uno spauracchio per l’ establishment.

Alcune espressioni di occupy, nascono e si sviluppano all’interno di queste contraddizioni, affrontando alcuni nodi della sfruttamento e dell’oppressione centrali per le strategie di riproduzione dei rapporti sociali dell’imperialismo statunitense: lo sviluppo di questi contenuti ci sembra quindi particolarmente interessante all’interno del processo organizzativo che si sta delineando.

Uno spaccato in divenire

Nell’analizzare ciò che è successo negli USA dalla metà di settembre dell’anno scorso ci siamo focalizzati particolarmente sulla lotta dei lavoratori portuali della Costa Ovest degli Stati Uniti e dei camionisti che lavorano per i porti della Costa Occidentale e dei loro rapporti con le esperienze di occupy degli stati interessati a queste vertenze (Washington, Oregon, California).

In particolar modo abbiamo elaborato una cronaca ragionata della vertenza dei lavoratori portuali di Longview che ha coinvolto prevalentemente sia i portuali della West Coast sia le varie esperienze di occupy, questa lotta durata quasi un anno costituisce una “vittoria” che inverte il corso delle sconfitte delle recenti mobilitazioni negli USA, divenendo un importante banco di prova per quelle esperienze di occupy che hanno dato un contributo fondamentale ad una parte importante della working class organizzata nella International Longshore Warehouse Union (ILWU).

Ma l’azione di occupy sul “fronte mare” non si è limitata al sostegno a queste vertenze, si è attivato su contenuti specifici, la reazione agli attacchi - prima singoli poi coordinati a livello federale - a queste esperienze perpetrati dagli apparati dello stato, con l’intenzione esplicita di colpire “wall street on waterfront”, cioè gli interessi vitali delle corporations che passano attraverso i varchi, interrompendo il flusso delle merci.

Questo lavoro d’approfondimento: Votare con i piedi… Lavoratori della costa Ovest, sindacalismo militante, e il movimento di occupy contro “Wall Street on the waterfront” l’abbiamo in parte riportato sulla versione cartacea della rivista (nelle pagine seguenti) e reso fruibile integralmente attraverso il web sul nostro sito, dandogli una versione stampabile in grado di essere pubblicata come opuscolo da chi lo riterrà un strumento utile (pdf ­­­scaricabile all’indirizzo: www.senzacensura.org/occupy/west_

coast.pdf).

Questo “opuscolo” costituisce una prima articolazione di un lavoro più ampio a cui seguirà un altro centrato su ciò che ha preceduto occupy dal 2007-2008 fino allo scorso autunno, il dibattito interno a queste esperienze, l’analisi sia dei prossimi banchi di prova a livello nazionale, quali lo sciopero generale proclamato per il primo maggio, che l’evoluzione dell’attività a livello locale.

Facendo questo cercheremo un maggiore scambio ed interazione con queste esperienze.

Particolarmente illuminanti ci sono sembrate le riflessioni formulate da alcuni gruppi di compagne/i organici alle esperienze di occupy che si sono sviluppate nelle relative città (Seattle, Portland, Oakland, San Francisco) e che abbiamo segnalato in questo lavoro di approfondimento, cercando di fornire una “mappatura” sommaria di quelle esperienze radicali pre-esistenti ad occupy e che ne hanno contribuito allo sviluppo, raggruppamenti già attivi nelle lotte precedenti e con un notevole elaborazione alle spalle.

 

Crisi, organizzazione, autonomia

Diciamo subito che l’estensione e l’intensificazione di occupy non trovano precedenti nella storia recente degli States, vedendo come protagonista una generazione alla prima esperienza politica, se si esclude l’importante ciclo di lotte contro i tagli al sistema educativo pubblico e al ridimensionamento delle welfare contestuali all’inasprirsi della crisi.

Il livello di autonomia raggiunto rispetto alle mobilitazioni precedenti e le contraddizioni da cui sono scaturite, la composizione politico-sociale, la capacità di mobilitazione, la volontà di darsi una prospettiva organizzativa in grado di “radicarsi” all’interno dei territori e legarsi all’ampio spettro di problematiche poste dall’esacerbarsi della crisi, variano notevolmente da città a città.

Oltre ad avere un quadro ampio di ciò che sta succedendo negli USA in generale da almeno 5 anni a questa parte, bisogna immergersi nelle varie realtà locali per capirne le singole dinamiche.

La perdita di legittimità legata alle scelte anti-popolari causate dalla crisi rende maggiormente impegnativo governare le contraddizioni sociali se non con una maggiore militarizzazione delle stesse e mette a nudo le politiche perseguite fino ad ora sul fronte interno rispetto ai mezzi, ai margini d’azione e alla tipologia d’intervento dei vari apparati preposti.

Una polizia altamente militarizzata, forze militari utilizzate in funzione di polizia, l’aggressività dell’apparato giudiziario-carcerario sono state impiegate, evidenziando le conseguenze della politica sicuritaria post “11 settembre” non più solo a coloro che ne hanno tradizionalmente sofferto le conseguenze e a un pugno di attivisti e analisti che le denunciavano. 

La dinamica virtuosa locale/nazionale, la capacità di mobilitazione per praticare l’obbiettivo, lo sviluppo di relazioni sociali differenti da quelle dominanti in un contesto urbano, la rielaborazione del patrimonio storico dei di tentativi di emancipazione, lo slancio e la pervicacia nel “lanciare il cuore oltre l’ostacolo”, scegliendo banchi di prova sempre più impegnativi, la capacità di comunicazioni con porzioni sociali non immediatamente coinvolti, sono tra le caratteristiche più interessanti di questi tentativi di organizzazione autonoma dentro la crisi presenti in occupy.



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