SENZA CENSURA N.37

luglio 2012

 

editoriale
 

La più alta forma di Stato, la repubblica democratica, che nelle condizioni della nostra società moderna diventa sempre più una necessità inevitabile, ed è la forma di Stato in cui, soltanto, può essere combattuta l’ultima lotta decisiva tra borghesia e proletariato, la repubblica democratica non conosce più affatto ufficialmente le differenze di possesso. In essa la ricchezza esercita il suo potere indirettamente, ma in maniera tanto più sicura. Da una parte nella forma della corruzione diretta dei funzionari, della quale l’America è il modello classico, dall’altra nella forma dell’alleanza tra Governo e Borsa, alleanza che tanto più facilmente si compie quanto maggiormente salgono i debiti pubblici, e quanto più le società per azioni concentrano nelle loro mani, non solo i trasporti, ma anche la stessa produzione e trovano a loro volta il loro centro nella Borsa.”

Friedrich Engels,

L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato (1884)

Vorremmo puntare l’attenzione su alcuni aspetti dell’attuale fase politica italiana, caratterizzata in questi mesi dalla reggenza di un governo “tecnico“.

Grande clamore è sorto attorno a questo esecutivo, clamore del tutto giustificato dalla sua politica di “lacrime e sangue”, preannunciata e puntualmente messa in atto, che ha pesantemente attaccato le condizioni di vita e il valore del salario di milioni di proletari e lavoratori, attuando una serie di interventi che governi “politici” non sarebbero probabilmente riusciti a concretizzare in maniera così repentina.

Non è nostra intenzione approfondire nel dettaglio, in questo editoriale, le misure che il Governo Monti ha imposto in questi mesi, né i tanti momenti di opposizione che alle sue politiche si sono sviluppati in tutta Italia e nei più svariati settori di intervento.

Ci interessa invece porre l’attenzione su un aspetto che, a nostro avviso, caratterizza in termini strategici l’attuale fase, un elemento del tutto strutturale nella gestione della crisi, con l’obiettivo di contribuire a un dibattito che rafforzi gli strumenti di comprensione della realtà odierna.

In generale, discutendo sul Governo Monti, sembra prevalere la percezione di trovarsi di fronte a un evento sostanzialmente anomalo, di portata eccezionale, con un premier “calato dall’alto” (il cosiddetto “uomo dei banchieri...”) a difendere gli interessi delle economie forti della UE. Questa “guida tecnica” assumerebbe – quindi – i caratteri o i prodromi di una situazione straordinaria, una sorta di “golpe” che va esprimendosi in un’entità che si pone fuori e al di sopra della dinamica parlamentare.

Senza voler ridimensionare assolutamente la pesantezza della natura antiproletaria e di classe di questo governo e delle sue politiche, troviamo significativo tentare di entrare nel merito di questa percezione.

Ci sembrerebbe, infatti, prematuro asserire d’essere di fronte a un “salto” istituzionale che mira a liquidare il sistema bipolare o, addirittura, che ha l’obiettivo di ridimensionare la stessa organizzazione formale della democrazia parlamentare. Non ci sembra ci siano elementi sufficienti per arrivare a queste conclusioni o, peggio, per ergersi a difesa di una democrazia in pericolo.

Negli ultimi 20 anni, di governi tecnici se ne sono già visti e, esattamente come oggi, hanno operato in modo funzionale per garantire, attraverso specifiche politiche di sacrifici, il progressivo smantellamento di diritti e garanzie delle fasce più deboli della popolazione. Con il pretesto e lo scudo dell’interesse nazionale e della posizione bi-partisan dei poli contrapposti, anche in passato sono riusciti a far passare le misure più impopolari, con ricadute disastrose in ogni ambito della società.

In tal senso, appunto, hanno dimostrato d’essere uno strumento alquanto efficace, una “tana” sicura per lo schieramento bipolare che, a cose fatte, ne è sempre uscito rivestito a nuovo, pronto per l’ennesima riedizione del teatrino maggioranza-opposizione.

Appare indubbio, invece, l’ennesimo salto di qualità, l’ulteriore grado di approfondimento di quel percorso che sta progressivamente smantellando ogni possibile tutela sociale e del lavoro, per scaricare sulla classe i costi di una crisi sempre più pesante.

E se questo è il quadro generale nel quale ci sembra corretto collocare l’attuale presente, l’aspetto forse più interessante da analizzare è proprio la tecnica che viene adottata per dare una copertura politica a questi strumenti di gestione della crisi, per renderli digeribili, se non addirittura benvenuti, non solo istituzionalmente ma anche a livello popolare.

In sintesi, descriviamo questo strumento con la definizione di “logica dell’emergenza”.

La logica dell’emergenza agisce compattando e cooptando, attorno ad un tema specifico, tutte le forze in campo appartenenti alla catena di comando, in un’azione coordinata e per lo più spettacolarizzata dall’uso massiccio dei mass-media.

L’”emergenza” diventa così patrimonio collettivo, problema sociale di vitale importanza, che rischia di mettere in discussione l’esistenza stessa della “comunità”, sia essa considerata sul piano locale, nazionale o internazionale. Diventa elemento di instabilità e di insicurezza sociale, tanto da richiedere uno sforzo collettivo, il quale deve, necessariamente, essere capace di superare interessi parziali (o di classe, aggiungiamo noi) che, altrimenti, rischierebbero di ostacolare l’applicazione di misure adeguate.

Le “misure d’emergenza” definiscono sempre dei salti nelle dialettiche consolidate, siano esse di carattere sociale, culturale o giuridico. Salti che, se affrontati sul piano complessivo, evidenzierebbero la loro natura di classe, ma che, se introdotti a fronte di una questione particolare, possono passare in maniera più subdola e, apparentemente, indolore.

Abbiamo ormai una lunga esperienza di come questi passaggi, tutt’altro che legati a una contingenza specifica, fissino invece delle nuove soglie dalle quali non si torna più indietro.

Lo abbiamo visto fin dagli anni ‘70 con la cosiddetta legislazione speciale a fronte dell’”emergenza terrorismo”. Tuttavia, quelle carceri speciali non hanno contribuito a modellare tutte le nuove generazioni di galera in Italia? Quelle misure di isolamento (ai tempi la discussione era sulla tortura…) non le ritroviamo riproposte in vario modo nell’attuale ordinamento con articoli come, uno su tutti, il 41bis? Gli esempi, purtroppo, non mancano.

Uno schema, per altro, che abbiamo visto diffusamente applicato a svariate “emergenze”: dalla droga alla mafia, dagli immigrati agli scioperi e, ancora, gli ultras e gli stadi, e così via.

E ognuno di questi casi, vasi comunicanti di un medesimo impianto d’intervento, ha portato al riadeguamento, in termini peggiorativi, delle normative sulle materie specifiche e al tempo stesso a un “travaso”, a una contaminazione  anche negli altri terreni dove si sviluppa scontro di classe e controllo sociale.

Da questo punto di vista tutto può essere trattato come “emergenza”: lo abbiamo visto nella gestione di alcune recenti catastrofi naturali come i terremoti che hanno colpito Abruzzo ed Emilia Romagna. L’emergenza terrorismo post 11/9, consenti il compimento, la completa  realizzazione di quel sistema denominato “Difesa Civile”, un sistema complesso che, a fronte di una “situazione suscettibile di poter coinvolgere o mettere a rischio gli interessi della collettività Nazionale”, coopta ampi settori dai vigili del fuoco, sanità, protezione civile direttamente sotto la direzione del ministero degli interni. Se da una parte, l’emergenza ha fatto sì che fossero occultate responsabilità e negligenze di padroni e politici, incompetenze e dolo, dall’altra ha consentito l’applicazione delle dottrine proprie di “emergenze” di ben altro tipo. Non deve quindi sorprenderci quanto venutosi a determinare, dalle caratteristiche dei campi al ruolo della protezione civile e croce rossa, alla militarizzazione dei territori coinvolti.

Allo stesso tempo, questa logica porta con sé la progressiva dissoluzione del concetto di identità o interesse di classe, valori sacrificati proprio sull’altare dell’emergenza costante che ci trasforma in “cittadini”, apparentemente uniti e uguali di fronte ad essa.

Senza scomodare i vertici di partiti e sindacati riformisti, solitamente parte attiva di questa strategia, quante volte, anche all’interno del movimento, ci siamo dovuti confrontare (o scontrare) con l’arretramento su questioni centrali per motivi di opportunità, di tattica politica, rischiando di perdere e talvolta perdendo nel concreto battaglie politiche e sindacali.

 

Con la logica dell’emergenza si determinano le condizioni che aprono la strada a interventi “correttivi” profondi, che hanno un valore che trascende la questione di superficie per i quali sono divenuti necessari.

Ed è proprio questo valore che, di volta in volta, ne qualifica la natura.

Non siamo di fronte a scelte improvvisate, legate al caso o all’iniziativa di specifici soggetti particolarmente reazionari. Sono interventi le cui ricadute politiche determinano sempre un avanzamento in una linea strategica ben chiara e definita.

La logica dell’emergenza, che ben abbiamo visto applicata anche nel caso del Governo Monti, è dunque un efficace strumento per lo sviluppo di quel processo di esecutivizzazione di cui spesso abbiamo già scritto nelle pagine della rivista.

Un processo di importanza strategica, poiché consente di aumentare la capacità di gestione del potere in una fase di crisi profonda, tra profonde contraddizioni.

In più occasioni, abbiamo provato a osservare questo processo nel suo articolato dispiegamento, tra il recepimento di atti e dottrine, la creazione di nuove leggi, la dotazione di strumenti e, in relazione al campo di applicazione, il carattere  internazionale; un processo determinato dalla sostanziale omogeneità d’interessi della borghesia imperialista, che ne assicura la continuità ad ogni costo.

 

Il fatto che questo ennesimo governo tecnico, più che in passato, sia percepito come una svolta autoritaria (o la sua anticamera) ci fa riflettere sul fatto che quello che stiamo vivendo oggi non ha nulla di anomalo. Forse si può dire, in generale, che il processo di esecutivizzazione, concetto considerato spesso ostico, poco comprensibile, cominci davvero a sentirsi sulla pelle, man mano che le contraddizioni si fanno più stringenti; forse, allora, sarà proprio l’incedere della crisi che renderà sempre più chiaro lo sviluppo di questo processo e la relazione che lo lega indissolubilmente ad essa.



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