SENZA CENSURA N.37

luglio 2012

 

Crisi, tendenza alla guerra e classe
Un intervento dal carcere di Siano

 

Abbiamo ricevuto questo scritto elaborato dal compagno Gianfranco Zoja, attualmente recluso presso il reparto ad Alta Sorveglianza del carcere di Siano (CZ). Il testo riporta alcune considerazioni intorno alla crisi, all’imperialismo, alle lotte operaie e alla condizione della classe proletaria. Come rivista cerchiamo sempre di affrontare e dare spazio alle riflessioni attorno alla “crisi” in una sua caratterizzazione ampia e questo intervento pensiamo rientri in questa concezione offrendo diversi spunti di interesse.

Il testo è stato messo a disposizione da Resistenze Metropolitane (resistenze.metropolitane@gmail.com).

 

Guardando al dibattito in corso tra gli economisti che scrivono su Marxiana (di cui a noi è pervenuto qualche stralcio), bisogna riconoscere che - per quanto riguarda l’analisi delle politiche economiche del capitale in atto - loro viaggiano a cavallo e noi a piedi.

Dov’è però che tutti questi approfonditi interventi mostrano la corda? Quando dalla parte analitica si passa a quella propositiva, e ciò probabilmente perché si tratta, per l’appunto, di economisti, benché marxisti.

Il fatto, riportato da un compagno di Resistenze Metropolitane, che a queste iniziative di divulgazione alla fine ci sia sempre qualcuno che chieda: “Proposte?”, e se ne debba poi andare via a mani vuote, a me sembra indicativo.

Se c’è quindi un punto a nostro favore, è quello di aver tentato di ricomporre in unità dialettica teoria e prassi, pur essendo abbastanza deficienti nell’una e nell’altra.

Da un punto di vista generale, si può dire che manca un atteggiamento propositivo perché manca il riferimento collettivo, quello che per i comunisti, di solito, è il partito rivoluzionario. Certamente non spetta a quelli che stanno in galera dire a quelli che stanno fuori quali forme organizzative dovrà assumere la lotta di classe.

I processi in corso nel sistema capitalistico hanno subìto un’improvvisa accelerazione negli ultimi due-tre anni. Basti pensare a quanto è stato repentino il peggioramento delle condizioni di vita dei proletari in Italia (e, a maggior ragione, in Grecia). Se negli ultimi trent’anni c’è stata una lenta erosione del potere d’acquisto dei salari, negli ultimi due-tre anni c’è stato il crollo. Parimenti, anche tutte le altre dinamiche economiche e sociali risultano ugualmente accelerate. Cerchiamo dunque di tirare fuori da questo casino quei pochi punti fermi (se di “punti fermi” si può parlare in una realtà che cambia così velocemente), peraltro già ampiamente dibattuti singolarmente.

L’attuale crisi del capitale non è, contrariamente a quanto sostengono i liberisti (o, perlomeno, quelli che si professano liberisti fino allo scoppio della crisi), dovuta a un eccesso di finanziarizzazione, né alla speculazione di borsa. Entrambi questi aspetti sono caratteristici della fase imperialistica del capitale, e - in una certa misura - fisiologici al mercato. Certo, bisogna tener conto dell’ampiezza in cui questi fenomeni si manifestano nella specifica congiuntura, ma anche del fatto che essi esistono da almeno centoventi anni, e che nel corso del tempo sono stati gestiti in vari modi. Naturalmente, concorrono entrambi ad aggravare la crisi in atto, ma non ne sono i responsabili. Ciò era già evidente a Marx ed Engels, e da allora non è cambiato.

Con buona pace dei keynesiani, essa non è dovuta nemmeno al sottoconsumo, il quale, essendo effetto dell’aumento della composizione tecnica del capitale (cioè di uno dei fattori che producono la crisi), non può esserne la causa.

Il concetto di capitale è inseparabile da quello di crisi, dall’autodinamismo delle sue contraddizioni interne. Se si scava sotto le complesse e intricate cause immediate di ogni crisi del capitale, la spiegazione di fondo che emerge è di una semplicità disarmante: i capitali sono costretti dalla logica della concorrenza a produrre sempre di più utilizzando sempre meno operai. A un certo punto, producono più di quanto riescono a vendere. Le crisi del capitale sono dunque crisi di sovraproduzione, eccesso di capitale con eccesso di forza-lavoro.

“Questa pletora di capitale trae origine dalle stesse circostanze che provocano una sovrapopolazione relativa, ed è quindi un fenomeno complementare di quest’ultima, benché le due si trovino su poli opposti, capitale inutilizzato da una parte e popolazione operaia inutilizzata dall’altre” (Il Capitale, Libro III, Cap. XV).

Da quando il capitale ha piegato ai propri interessi l’intero pianeta, strutturandosi come sistema imperialista globale (cioè, più o meno, negli ultimi sessant’anni) le crisi di sovraproduzione di merci e di capitali sono divenute sempre più frequenti. Le cause sono sempre le stesse, le contraddizioni interne e strutturali al sistema:

a) La caduta tendenziale del saggio medio di profitto (la cui tendenza secolare è evidenziata dal grafico di Carchedi [economista, per i suoi scritti vedi http://marx2010.weebly.com/index.html, ndr] ; questo grafico è però elaborato unicamente su dati relativi alle attività produttive USA. Sarebbe interessante confrontare questa curva con quella relativa ai dati globali. Infatti, se è vero che questa crisi nello specifico è stata determinata prima di tutto dal crollo del saggio di profitto USA, e poi si è riversata a cascata sulle altre economie, quello che in ultima analisi a noi interessa capire è: a che punto è la notte? Non è che se il sistema lo salvano i BRICS anziché gli USA, allora siamo a posto!);

b) Il carattere sempre più sociale della produzione, ed il carattere sempre più privato della proprietà dei mezzi di produzione. Condizione questa sintetizzata egregiamente da Occupy Wall Street con la formula 99% contro 1%;

c) La sostanziale anarchia di fondo del capitale.

La presente crisi è anche crisi del modello di divisione internazionale del lavoro e dei mercati fin qui funzionante. A fronte dell’espansionismo del modello capitalistico cinese (The Economist riconosce la maggiore competitività del capitalismo di stato su quello privato in questa congiuntura) e della crescita dei BRICS, il sistema tripolare a dominanza USA sta perdendo colpi. Ma ha ancora un bel po’ di cartucce da sparare.

La crisi dei mercati asiatici di fine anni ‘90 (indotta, praticamente , da George Soros), e l’attuale crisi di Eurozona, sono da leggersi, con buona approssimazione, come colpi sparati in difesa della supremazia USA (una forma di guerra non convenzionale).

Nessun economista nei think tank dell’imperialismo sembra disporre della ricetta giusta che dia al sistema qualche chance di uscire vivo dalla crisi, e tantomeno di uscirne mantenendo inalterati gli attuali assetti di potere. Il neoliberismo non può farlo, essendo esso stesso parte non irrilevante del problema.

Il keynesismo, sia sociale che militare, tanto meno, avendo già concorso a determinare crisi precedenti, per risolvere le quali ci sono voluti o la guerra, o l’avvento del neoliberismo stesso.

Questa semplice constatazione storica basterebbe da sola a mostrare la pochezza teorica di gran parte della sinistra contemporanea, che invece sul keynesismo nelle varie salse fa grande affidamento.

Il polo europeo è sin dalla nascita compreso (e compresso) nel rapporto di sudditanza politica e conflittualità economica con il polo dominante USA. Solo all’interno di questa schizofrenia è possibile spiegare la costituzione dell’Euro come moneta forte per contrastare il signoraggio del Dollaro, e la contestuale incapacità di dare a questo progetto economico la sostanza politica, amministrativa e militare che soltanto gli Stati Uniti d’Europa potrebbero conferirgli.

Il tentativo USA di riversare su Eurozona i costi della crisi, costringono quest’ultima a uscire dall’ambiguità del rapporto e la pongono davanti a un bivio. Da un lato la soluzione indicata da Obama: l’Europa allargata, con la Germania che si fa garante dei deficit dei PIIGS; soluzione che mantiene unità l’Europa evitando pericolose reazioni a catena sia dal punto di vista economico che da quello dell’ordine pubblico, perpetuando però il rapporto di sudditanza all’alleato americano che ne uscirebbe rafforzato in previsione del conflitto con la Cina. Dall’altro, l’Europa ristretta dell’Euro forte, che presuppone una ridefinizione di tutti gli assetti, l’estromissione dei Paesi meno competitivi, l’espansione ad Est, un’eventuale alleanza strategica con Russia e Cina e la rotta di collisione con gli USA.

Se questa crisi - e, al suo interno, la vicenda FIAT - hanno dimostrato qualcosa, è l’obsolescenza in Europa di alcune istituzioni che fin qui sono state dei pilastri portanti del sistema. L’Europa entra nel cuore della sovranità nazionale, dimostrando che moneta e fisco non sono più competenze politiche dei singoli Paesi. Il commissariamento diretto da parte della BCE di Grecia e Italia e quello ufficioso di altri Paesi deboli, unitamente al caso del Belgio, sembrano dimostrare l’inutilità dei governi nazionali, perlomeno in materia di politica economica e amministrativa. Nel rapporto con il capitale finanziario, è semplicemente saltata la funzione di sintesi che ne giustifica l’esistenza.

Vale la pena di spendere due parole sulla mancanza di governo in Belgio che perdurata per oltre cinquecento giorni. A nostro avviso si tratta di un vero e proprio caso da manuale. Solo nell’Iraq occupato si era registrata una vacanza di governo paragonabile (300 giorni). Ma il Belgio, a differenza dell’Iraq occupato, è un Paese in pace, al centro dell’Europa e membro fondatore della CEE. Il conflitto tra gli opposti “leghismi” fiammingo e vallone all’origine della crisi politica, qui non interessa affatto. A noi interessa l’esperimento in sé. Interessante ad esempio è il fatto che durante questa assenza di governo il PIL del Belgio sia cresciuto e l’economia nel suo complesso non abbia risentito della mancanza di guida politica. Ciò dimostra che, a questo sviluppo delle forze produttive, le decisioni politiche sono avocate a livello UE e la struttura burocratico-amministrativa dello stato nazionale è assolutamente sufficiente al suo funzionamento, senza necessitare ulteriori mediazioni. I governi nazionali ne escono malissimo. Si è trattato di un enorme laboratorio economico- sociale che certamente sarà stato studiato dai centri studi del capitale e che anche i comunisti dovrebbero studiare. Questo caso dimostra ancora una volta che la necessità si fa valere in modo assolutamente casuale e il caso in modo assolutamente necessario.

Quale Stato nazionale sarebbe stato così pazzo da prestarsi volontariamente a un esperimento così importante? Invece, il caso ha fornito alla necessità un particolare mix di sviluppo fiammingo e sottosviluppo vallone, una contrapposizione di lunga data basata su differenze culturali e linguistiche, una Costituzione tra le più complicate del mondo e una storia nazionale improbabile (il Belgio è un invenzione del 1831), rendendo così l’esperimento possibile.

La vicenda FIAT/Marchionne/Pomigliano ecc. (come bene evidenziato nel libro “La strategia del maglione” di Maria Elena Scandaliato), ha invece per parte sua dimostrato l’inutilità di Confindustria e sindacati, e il venir meno della necessità/possibilità di mediazione tra interessi diversi, che essi rappresentano.

Si prefigura uno scenario in cui il rapporto tra i diktat del capitale multinazionale, i capitali subordinati e il lavoro, si darà in modo sempre più diretto.

Se l’alternativa è calarsi le braghe o morire, a che servono gli organi di mediazione? Ciò diverrà sempre più evidente anche ai non-vedenti volontari.

Certo, ogni sistema difende se stesso: piccola e media industria giocheranno un ruolo ancora a lungo, soprattutto in Italia, e i sindacati serviranno ancora a incanalare la conflittualità operaia dentro schemi di compatibilità. Sempre più essi si trasformeranno in società di servizi (vedere la massa di denaro che gira intorno ai CAF) o di gestione capitali (come, ad esempio, il fondo Cometa), passando così dalla condizione di servi dei padroni a quelli di padroni in prima persona.

Non sarà un processo immediato, ma la tendenza mi sembra ormai questa. È la funzione originaria di quegli organismi che è ormai venuta meno (non che manchino nella storia gli esempi di istituzioni sopravvissute con successo all’estinzione della propria funzione fondamentale: basti pensare alla chiesa cattolica!).

Quello che a me sembra paradossale è la sfasatura della critica rispetto all’esistente. Dato per buono il contesto (e il contesto nel nostro caso è l’esistenza del capitalismo globalizzato), Marchionne ha ragione in tutto e per tutto. Parafrasando Hegel, si potrebbe dire che egli è “lo Spirito del Mondo in Ferrari”.

Fa il suo lavoro e non possiamo lamentarci se il nemico di classe fa bene il suo lavoro, ne pretendere di insegnargli come lo deve fare. Coloro che lo criticano senza mettere in discussione il contesto, vorrebbero o un altro capitalismo, o un altro sindacato (magari “di classe”). Ma queste cose non appartengono già più alla sfera del reale; sarebbe come volere il feudalesimo e le corporazioni con l’attuale sviluppo dei mezzi di produzione. Il punto è che il contesto, cioè l’esistenza del capitalismo globalizzato, incomincia a essere incompatibile con l’esistenza dell’umanità.

La recente dichiarazione del FMI, dove si dice in sostanza che il previsto aumento di due anni della speranza di vita umana media getterà in gravi difficoltà il sistema economico mondiale, mi sembra abbastanza significativa.

I fattori di controtendenza alla caduta del saggio di profitto sembrano di essere in grado, al massimo, di rallentare il decorso della crisi, ma non di risolverla. Se le crisi esaltano tutte le contrapposizioni di un sistema, ciò è tanto più vero per quella tra capitale e lavoro, che ne è la principale. Il proletariato mondiale ha pagato i costi di ogni crisi del capitale, ed ogni ripresa si è fondata su un accresciuto saggio di sfruttamento. Aumentare il saggio di sfruttamento, sia in termini relativi che assoluti, è il primo modo in cui il capitale cerca di gestire la crisi, la prima controtendenza messa in campo. C’è tuttavia un limite fisico all’aumento del saggio di sfruttamento in regime capitalistico, ed è dato dalla soglia di sopravvivenza della forza-lavoro. In condizioni di sovrappopolazione relativa il capitale può anche spingere l’acceleratore dello sfruttamento al di sotto di questa soglia; ma per quanto tempo lo potrà fare prima che gli si rompa la macchina? Il fattore TEMPO e il fattore MISURA diventano allora cruciali (l’economista Carchedi, nei suoi scritti sulla trasformazione del valore in prezzo, fa notare come essa sarebbe impossibile se la si astraesse dal fluire del tempo. Si potrebbe aggiungere - e ai materialisti forse appare come un’ovvietà - che ciò vale per qualunque teoria di interpretazione dell’esistente che abbia la pretesa di essere minimamente scientifica, giacché non esiste materia che non sia misurabile e che non sia in movimento , e non esiste movimento senza tempo).

Tornando ai fattori di controtendenza, la rivoluzione telematica degli anni ‘90 ha dato al capitale cinque-sei anni di respiro. Potrebbe oggi accadere qualcosa di simile con l’introduzione delle nano-tecnologie?

La caccia alle ricchezze minerarie ancora celate nei territori degli Adivasi in India, dei Maya in Sud America, o nel Centro Africa, spiega molti micro conflitti in atto.

Quanto tempo occorrerà all’imperialismo per saccheggiare queste risorse, e in che misura la loro disponibilità potrebbe risollevare i mercati?

La resistenza in queste aree non rallenta solo lo sviluppo del capitale locale, ma si ripercuote sull’intero sistema economico mondiale. Questo è il motivo per cui, ad esempio, i naxalisti si trovano a doversi confrontare direttamente anche con le forze imperialiste, anziché solo contro il Salva Judum o l’esercito indiano.

Con tempo e denaro sufficienti forse la dottrina Petraeus potrebbe pacificare le aree strategiche per l’imperialismo USA, ma tale dottrina non sembra avere disponibilità illimitata ne dell’uno, ne dell’altro.

Per noi, come per il nemico di classe, ciò che può avere importanza risolutiva in un dato momento, può invece risultare insufficiente poco prima o poco dopo. Ci sono anni che contano come giorni e giorni che contano come anni. Dal punto di vista della rivoluzione, gli ultimi trentadue anni in Italia hanno contato davvero poco. C’è stata la generosa battaglia di retroguardia di pochi e la più o meno disordinata ritirata del grosso della classe. Ma questi anni di resistenza non sono trascorsi invano se oggi il nemico ha perduto slancio e tutti i nodi vengono al suo pettine.

Risulta infine evidente che né il processo di ristrutturazione continua messo in atto dall’imperialismo a partire dalla metà degli anni ‘70, né i trucchetti finanziari (altalena del costo del denaro) usati per gestire le crisi precedenti e che hanno prodotto solo un aggravamento di quelle successive, sono adeguati a gestire questa crisi. Una crisi di questa portata può essere risolta soltanto attraverso la distruzione di una enorme quantità di capitale.

Tutto ciò, come dicono Marx, Engels e il buon senso comune, non può avvenire senza lotta.

Difatti, se la crisi è globale e sistemica, dunque inevitabile per il capitale, non è affatto indifferente stabilire di chi saranno i capitali eccedenti che dovranno essere distrutti, di chi quelli che dovranno restare “fermi un giro” in attesa di potersi valorizzare. L’onere di tale distruzione non verrà diviso in maniera egualitaria tra i capitali; l’anarchia di fondo del capitale gli impedisce - da questo punto di vista - di funzionare come classe per sé. (Anche se, a dire il vero, il capitale ha cercato di dotarsi nel tempo di quegli strumenti sovrannazionali che ne potessero tutelare gli interessi generali. Tuttavia, tali strumenti hanno il difetto di funzionare relativamente bene nei periodi di vacche grasse, ma mostrano la loro fragilità ogni volta che il gioco si fa duro; chi aveva la pistola più grossa non ha mai mancato di metterla sul tavolo.)

Le possibili evoluzioni della presente situazione a me sembrano tre.

 

1) La prima è che il capitale, utilizzando tutte le opzioni in suo possesso, riesca a distruggere una quantità di se stesso tale da potere - una volta stabiliti nuovi assetti - ripartire con un nuovo ciclo e una nuova espansione.

2) Il secondo scenario prevede che il capitale non riesca a condurre in porto quest’operazione, perché la conflittualità sociale generata sfocia in rivoluzione proletaria.

3) La terza ipotesi, che oggi appare fantascientifica ed evoca londoniani talloni di ferro, vede il capitale schiacciare militarmente il proletariato sull’intero pianeta, senza però riuscire a risolvere le proprie contraddizioni interne. Deve quindi cambiare il modo di produzione stesso, cavalcando la trasformazione per non esserne travolto. Deve negare se stesso in quanto capitale per mantenere i privilegi dell’attuale leadership mondiale, trasferendoli in un moderno sistema di caste e lavoro forzato: un’entità agonizzante che sacrifica la sua essenza per sopravvivere a se stessa nella sostanza.

Il primo scenario è quello che stiamo vivendo oggi, perlomeno nei piani del capitale. La distruzione di capitale eccedente che si è resa ora necessaria investirà l’intero sistema mondiale. Attraverso la crisi finanziaria le Borse bruceranno, come già stanno facendo, buona parte del capitale fittizio (stimato essere non si sa bene quanto: chi dice sette volte quello reale, chi dice undici, chi dice ancora di più¼ comunque più soldi di quelli che noi comuni mortali riusciamo a immaginare) e anche - per la conseguente chiusura di molte aziende, per l’abbandono dei mezzi di produzione considerati non più remunerativi ecc. - una considerevole parte di capitale reale.

Ma tutto ciò potrebbe non essere sufficiente. La guerra è l’unico altro modo conosciuto per distruggere capitali e merci eccedenti e, soprattutto, la merce forza-lavoro che oltre a essere l’unica in grado di generare plus-valore, ha anche la caratteristica di poter diventare carne da cannone.

Dietro a ogni arma - per sofisticata che sia - ci sarà sempre un essere umano, che del “sistema di arma integrato” è la componente più difettosa. Il suo “difetto” consiste nell’avere facoltà di pensare e di non auto-distruggersi a comando in caso di necessità. La guerra, quindi, con le sue ferree leggi, diviene l’ambiente più idoneo per la sua distruzione.

Consideriamo qui per il momento come “tendenza alla guerra” sia l’ipotesi di una guerra mondiale quale sbocco obbligato della crisi capitalistica, che lo spalmarsi di essa in una serie di conflitti a basso profilo, guerre assi metriche e continuazioni della guerra con altri mezzi. La Guerra Fredda, ad esempio, fu “tendenza alla guerra” in entrambe le accezioni. Da un lato è stata preparazione di un conflitto mondiale, che poi non c’è stato, ma che tuttavia, mentre veniva preparato, era tendenza reale (benché da intendersi come eventualità, non come necessità storica).

Dall’altro, il suo svolgimento effettivo si è manifestato principalmente nei conflitti d’area che, nell’arco di quarantacinque anni, hanno imperversato in tutto il Tricontinente, causando comunque diverse decine di milioni di morti.

Che sia da intendersi nell’una o nell’altra accezione, essa è la tendenza principale del capitale nella sua fase imperialistica, ed è l’unica istanza in grado di stabilire nei fatti quali capitali verranno distrutti, quali resteranno parcheggiati, quali ne usciranno vincitori.

Proprio perché le armi, da sole, non combattono e la merce forza-lavoro può sempre decidere di rivolgerle contro i propri padroni e governanti, la guerra è storicamente sempre stata una gigantesca opportunità per la rivoluzione proletaria. Tuttavia, bisogna rifuggire dall’automatismo di stampo terzinternazionalista CRISI - GUERRA - RIVOLUZIONE, che nella storia si è concretizzato nell’attendismo di tanti partiti comunisti. Ci fossimo attenuti a tale schema, avremmo passato gli ultimi sessant’anni ad aspettare Godot.

In tutte e tre le eventualità, per tutti noi - per il proletariato mondiale - sarà comunque durissima. Il linguaggio asettico di quest’analisi non riesce a rendere il sangue, il dolore, la fame, l’abbrutimento, la disperazione e il lutto che ci aspettano. Ciò a cui stiamo andando incontro a velocità sempre maggiore è un dramma reale; trasformarlo in rivoluzione è necessità vitale per la classe e per l’intera specie, ma il prezzo sarà comunque altissimo.

Abbiamo di fronte i peggiori assassini che la storia abbia mai prodotto, i più armati, i meglio organizzati, in lotta per la loro stessa sopravvivenza come classe: non si arrenderanno tanto facilmente.

Certo proposte NO DEBT che circolano per il movimento, dove - a seguito di un’analisi della crisi anche condivisibile - si ipotizzano il default, il rifiuto unilaterale di pagare i debiti e l’uscita pacifica dal capitalismo, a me sembrano il peggiore degli avventurismi. Sarebbe come voler levare il boccone di bocca a una tigre affamata e pretendere che non ci sbrani!

Occorre dunque essere preparati al peggio.

La globalizzazione ha modificato profondamente la classe. I vari proletariati nazionali preesistenti, con tutto il bagaglio di caratteristiche proprie che li contraddistinguevano (e che, in misura residua, ancora li contraddistinguono), entrano nel melting pot della globalizzazione e ne esce il proletariato internazionale.

Se non si può parlare di una nuova classe, poiché non è cambiato il suo rapporto con la proprietà dei mezzi di produzione (non ne aveva e continua a non averne), è certo però che esso è qualcosa di diverso e di più della semplice sommatoria delle sue componenti elementari.

È un nuovo soggetto, potenzialmente unitario, che si confronta con la borghesia imperialista a livello mondiale anche se non sa di esserlo. Del resto ogni classe che si è affacciata alla storia si è manifestata prima come classe in sé e solo molto tempo dopo come classe per sé.

Immagino che ciò valga anche per questa “mutazione” della classe. Come avviene tale

passaggio?

Come è avvenuto nella storia che gli spezzoni di una classe in auto-gestazione, fino a un dato momento divisi, maturassero coscienza collettiva e unitaria?

Generalmente, lottando contro lo stesso nemico.

La lotta contro l’imperialismo è quindi la sala-parto del proletariato internazionale, nonché il solo modo di fare la rivoluzione nel proprio paese. (L’idea di far la rivoluzione nel proprio paese su parole d’ordine internazionaliste non è, peraltro, una novità. Nel 1917 la parola d’ordine bolscevica “Pace senza condizioni, né annessioni”, parlava sia sul piano dell’internazionalismo che su quello della lotta di classe a livello nazionale. In piena guerra, sarebbe stato ben bizzarro cercare di mobilitare le masse di contadini, soldati e operai sull’obiettivo di un qualche aumento del salario, non sapendo nemmeno se si sarebbe arrivati vivi a riscuoterlo!)

Nel corso del processo di globalizzazione il proletariato mondiale ha avuto un’enorme crescita quantitativa, nella misura in cui le sacche residuali dei modi di produzione precedenti venivano assorbite dal sistema mondiale dell’imperialismo. All’interno di questa crescita, si è potuto osservare negli ultimi decenni un notevole incremento anche della classe operaia tradizionale (l’operaio-massa, per intenderci). Se la delocalizzazione della produzione ha infatti causato il declino di questo soggetto nei paesi del centro, nei paesi della periferia esso è aumentato in una misura molto maggiore. E ciò - poiché, in ultima istanza, è il modello di organizzazione del lavoro che determina le forme di organizzazione della classe - ha indotto in quei paesi la formazione di partiti comunisti abbastanza simili a quelli che si svilupparono in Occidente negli anni ‘20.

Al tempo stesso, permangono in quei paesi forme resistenziali e offensive prodottesi in fasi precedenti. L’estremamente arretrato entra qui in contatto con l’estremamente nuovo.

Il processo mostra ancora difficoltà di amalgama, ma la legge dello sviluppo diseguale combinato indica come determinati processi, benché riproducano le esperienze del passato in condizioni storiche più avanzate, non necessariamente ne devono ripercorrere pedissequamente tutte le tappe, e in genere si danno in modo più accelerato. Qualora la miscela dovesse produrre un nuovo tipo di soggettività cosciente e una nuova progettualità, l’effetto che ne deriverebbe sulle attuali condizioni oggettive sarebbe dirompente.

Ad esempio: la cosiddetta Primavera Araba ha generato un’onda di Tsunami che - benché spesso cavalcato con successo dall’imperialismo - ha spazzato via gli assetti di potere preesistenti, e ha aperto un ventaglio di possibilità per la rivoluzione proletaria, che da questa instabilità ha molto da guadagnare e poco da perdere.

Anche nei paesi del centro la globalizzazione ha modificato in profondità la composizione della classe. Le tre grandi leve di questo cambiamento sono state la delocalizzazione della produzione industriale, la dispersione della produzione residua e i flussi migratori dai paesi sottosviluppati. Paradossalmente, la delocalizzazione, percepita dalla classe come uno dei fattori principali della crisi (se non IL fattore principale), è in realtà un fattore non di crisi, ma di sviluppo del capitale, perlomeno fino a quando esisteranno nel mondo posti dove produrre a costi più bassi e finché esisterà qualcuno in grado di acquistare le merci.

La delocalizzazione diventa fattore di crisi solo in maniera indiretta, come tutto ciò che sviluppa il capitale, che proprio per questo è limite a se stesso.

Non tratterò qui nello specifico gli effetti di questi tre fattori sulla classe. Quello che interessa evidenziare e che, di fronte a tali dinamiche globali, i proletari dei paesi del centro (mentre il centro diventa periferia) sono impegnati in lotte resistenziali che non hanno alcuna speranza di vittoria a livello locale.

Dicevamo un tempo che la verità è sempre rivoluzionaria. Se, come credo, lo è ancora, anche a costo di passare per disfattisti bisogna dire chiaro alla gente che le lotte contro l’instaurazione del nuovo rapporto capitale/lavoro, stabilito a livello mondiale; contro l’adeguamento della forma-stato alla fase; contro il riassetto logistico di area, non potranno essere vinte.

Se nelle fasi precedenti una lotta aveva la possibilità di ottenere vittorie parziali, quando i costi di tale lotta diventavano per il capitale superiori a profitti e vantaggi, allorché sono in gioco progetti indispensabili alla sopravvivenza stessa del capitale, non ci sono costi che tengano.

Riguardo al riassetto logistico (che negli intenti del capitale dovrebbe produrre entro il 2030 un sistema integrato di area in grado di collegare tra loro ottantatré porti - molti dei quali da ristrutturare e trasformare in componenti di mega-porti - e trentasette aeroporti, attraverso le “autostrade del mare” e quindicimila Km di rete TAV, corridoi preferenziali europei TEN-T), la sua indubbia importanza primaria è collegata all’accelerazione nella circolazione delle merci e - conseguentemente - alla riduzione del tempo di rotazione del capitale. C’è però anche un altro aspetto, attualmente secondario, relativo alla tendenza alla guerra che non va ignorato, non tanto in funzione del dispiegamento rapido (che avverrebbe con altri mezzi), quanto in funzione delle linee di rifornimento di un eventuale teatro di guerra (linee di rifornimento terrestri troppo lunghe e insicure sono una delle principali spine nel fianco degli occupanti in AF.PAK).

Tuttavia, sono battaglie che vanno combattute lo stesso, in primo luogo perché c’è differenza tra l’essere battuti difendendosi e l’essere travolti dal nemico; in secondo luogo per le occasioni di ricompattamento e auto-organizzazione della classe che esse rappresentano.

La costruzione di nuovi rapporti di forza necessita la generalizzazione della lotta. Mi sembra che questa necessità sia stata colta dalle più recenti mobilitazioni NO TAV.

Rispetto alle fasi precedenti, il lavoro politico in seno alla classe è, per i comunisti, al contempo più facile e più difficile. Più facile perché le contraddizioni oggettive del sistema sono oggi più evidenti a tutti; la coperta è diventata troppo corta, non ci sono più le briciole con cui corrompere la classe operaia del primo mondo, come avveniva in passato e come avviene ancora in Germania. Più difficile perché venendo meno, con il radicalizzarsi della contrapposizione capitale/lavoro, quelle lotte parziali che potevano funzionare da rampa d’accesso allo sviluppo di una coscienza generalizzata dello scontro, queste stesse lotte si propongono da subito come scontro sul terreno del potere politico, “salto” che appare ai più come stratosferico.

Bisognerà quindi riconsiderare sotto questa luce anche il lavoro sindacale; finito il tempo della trattativa, è finito anche lo spazio per il lavoro sindacale inteso come rivendicazione disgiunta dalla lotta per il potere politico, quello che Lenin chiamava trade-unionismo e che definiva precisamente come la politica borghese della classe operaia.

Le recenti vicende dell’ILVA di Taranto mi sembrano un altro caso da manuale, che riflette le difficoltà dell’agire politico nella congiuntura. Si tratta, in buona sostanza, dello scontro tra quelli che non vogliono morire di fame e quelli che non vogliono morire di cancro: una guerra tra poveri a tutti gli effetti, dove entrambi le parti hanno ottime ragioni da opporre, senza però che queste ragioni spostino il focus dello scontro verso dove dovrebbe stare (classe/padrone) rispetto a dove si trova (classe/classe).

 

In un’altra fase si sarebbe potuto risolvere tatticamente la contraddizione rilanciando la lotta su obiettivi quali riconversione industriale, produzione eco-compatibile ecc., ricollocando lo scontro in una prospettiva corretta. Ma in una fase come quella attuale, in cui il padrone ci mette cinque minuti a delocalizzare la produzione in aree con salari più bassi e, soprattutto, con minori rotture di coglioni, queste soluzioni non sono più valide. Anche in questo caso si dimostra la necessità di portare la lotta sul terreno del potere politico, di passare dalla messa in discussione del modello di sviluppo a quello del modo di produzione stesso.

Ulteriore elemento di difficoltà è dato dal fatto che gli attuali livelli di coscienza della classe non riconoscono più all’istanza politica quel valore di rappresentatività generale che aveva un tempo. Ciò significa che ogni rapporto politico fiduciario dovrà passare attraverso la stima personale, da conquistarsi di volta in volta, di situazione in situazione.

Se la figura della tuta blu, per come la conoscevamo, sembra ormai destinata al declino, altre figure di lavoratori della fabbrica diffusa, dei servizi, precari, tecnici e impiegati proletarizzati, pseudo-artigiani in realtà operai a tutti gli effetti, disoccupati ecc. diventano ogni giorno che passa sempre più protagonisti delle lotte. I lavoratori extracomunitari in particolare giocheranno un ruolo sempre più centrale perché, benché molto ricattabili, sono anche quelli che vivono le condizioni di sfruttamento peggiori.

Già si incominciano a vedere , in alcune situazioni, tra lavoratori di diverse origini e culture, i primi segni di quell’”integrazione nella lotta” che caratterizzò gli anni ‘60 e ‘70 da Piazza Statuto in poi.

La possibilità di sviluppo di questo ciclo virtuoso, congiuntamente all’analisi della situazione internazionale, mi fa pensare che per la prima volta da molti anni, e nonostante l’estrema debolezza soggettiva, abbiamo oggi più opportunità noi del nemico di classe.

Rileggendo questo scritto, mi rendo conto di due cose. La prima è che molte delle affermazioni da me fatte sono apodittiche. Si trattasse di un testo scientifico, o di un documento di divulgazione, sarebbe imperdonabile. Ma trattandosi di spunti di riflessione tra compagni, direi che molto può essere dato per scontato, anche perché mi sembra di essere già stato abbastanza prolisso.

La seconda è che buona parte di quello che ho scritto si riferisce a linee di tendenza. Grave errore sarebbe confondere la tendenza con la realtà in atto.

Tuttavia, l’analisi della fase serve proprio per lavorare sulla realtà in atto, tenendo conto delle sue possibili evoluzioni.

 

Gianfranco Zoja

Carcere di Siano

 

Marzo/Aprile 2012

 

Per scrivere al compagno:

Via Tre Fontane, 28 - 88100 Siano (CZ)



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