SENZA CENSURA N.37

luglio 2012

 

Crisi e opposizione
Politiche di austerità e movimenti in Portogallo, Irlanda e Spagna

 

I materiali che seguono sono parte di un lavoro finalizzato ad approfondire elementi e livelli di sviluppo all’interno di alcuni paesi UE particolarmente colpiti dagli effetti della crisi e protagonisti delle attuali politiche di aggiustamento del debito.

Un lavoro curato, in occasione di una serie d’incontri di cui si sono resi protagonisti, da un gruppo di ricercatori dell’Università Europea appartenenti al Collettivo Prezzemolo*, provenienti da paesi diversi e attivi all’interno del contesto di cui tentano di dare una lettura.

Un lavoro rivisto e riorganizzato in funzione di una sua pubblicazione su questo numero, che cerca di affrontare quanto avvenuto in Portogallo, Spagna, Irlanda e Grecia per quanto riguarda la crisi e la sua manifestazione, le conseguenze e le politiche di austerity che i singoli governi hanno adottato.

Un lavoro che evidenzia con chiarezza le relazioni tra le suddette politiche, che sebbene vivano di una loro autonomia nei singoli paesi, hanno una loro omogeneità se collocate sul piano internazionale.

L’obiettivo, così come fatto nel numero precedente in merito alle mobilitazioni di Francoforte contro la cosiddetta Troika, è quello di ricollocare su un piano internazionale non solo l’analisi, allo scopo di contribuire a sviluppare una maggiore comprensione dello “stato della classe” in funzione di una necessaria ricostruzione di un terreno di lotta comune che non può e non potrà non essere almeno europeo.

È per questo che il lavoro da loro svolto assume un valore ancor maggiore non limitandosi, come detto sopra, alla realtà della lotta di classe di cui sono protagoniste fazioni di borghesia imperialista, ma cerca invece di dare una lettura dello stato di salute che i movimenti, le istanze di classe dimostrano nell’attuale fase. Una lettura che vuole essere lo specchio di qualcosa che rappresenta non quello che vorremmo che fosse ma quello che è, quel punto di partenza con cui il quadro militante è costretto a misurarsi nello sviluppo del processo rivoluzionario, nel definire le forme e i modi con cui agire nel contesto attuale.

Al lavoro svolto dai compagni/e del Collettivo Prezzemolo, abbiamo affiancato un contributo sulla situazione che è andata definendosi in Islanda, a nostro avviso importante, che ribadisce quanto le “vittorie” possano trasformarsi, se non dentro una radicale trasformazione della realtà economica, politica e sociale, in una nuova occasione per le forze capitaliste; che spesso le politiche di rapina del capitale possono come si usa dire “uscire dalla porta e rientrare dalla finestra” confermando che, così come in passato, “nessun riformismo vecchio e nuovo è possibile”.

*Il Collettivo Prezzemolo è un gruppo di studenti e ricercatori internazionali provenienti da una serie di paesi diversi, portando una varietà di esperienze e conoscenze della crisi in corso. “Ciò che ci unisce è la consapevolezza che, mentre i nostri governi cooperino nel rispondere alla crisi economica in modo antidemocratico e reazionario, i movimenti opposti a queste riforme rimangono in uno stato di isolamento e frammentazione”. L’obiettivo del Collettivo Prezzemolo è creare una rete di contatti, esperienze e conoscenze, con cui i movimenti anti-crisi siano  in grado di coordinare le loro strategie verso un progetto di resistenza transnazionale.

 

[http://collettivoprezzemolo.blogspot.it/]

 

 

Crisi e politiche di austerità in Portogallo, Irlanda e Spagna

 

Portoghese

A mio parere, per raccontare la storia di questa crisi non sarebbero necessari i quattro piccoli porcellini (o PIGS) Portogallo, Irlanda, Spagna e Grecia: infatti, il percorso è lo stesso e il fango dove sguazziamo è persino lo stesso: la palude neoliberale!

Ha scritto Marx che la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Temo che siamo in un momento di sovrapposizione del tempo storico in cui la tragedia convive con la farsa. Cercherò di raccontarvi brevemente le cause della tragedia che viviamo in Portogallo e le conseguenze della farsa che chiamano “aiuto” o   “assistenza”. Per non sentire la stessa storia quattro volte (perché i casi sono molto simili), ho deciso di concentrarmi su ciò che ci divide (cioé i piccoli dettagli che distinguono il caso portoghese da tutti gli altri).

È interessante notare, a differenza di quello che leggiamo su alcuni giornali, che questo non è solo un episodio in cui si riportano le diatribe di un PIG indisciplinato. No! Questa è, invece, la triste storia di un bravo studente con le orecchie d’asino:

C’era una volta un paese che, per molti anni, è stato presentato come l’alunno modello dell’Unione europea: dopo la rivoluzione del 1974 e il processo di transizione democratica e consolidamento, il Portogallo subisce un intervento del Fondo Monetario Internazionale nel 1982 ed entra nell’Unione europea nel 1986. Questi due atti hanno portato cambiamenti radicali alla struttura e infrastruttura economica del paese e provocato un fenomeno molto interessante da studiare per i teorici dello sviluppo: semplificando un po’, il Portogallo passa direttamente da una società ad economia rurale, fortemente dipendente dall’agricoltura e dalla pesca tradizionale, ad una società urbana e ad un’economia basata sui servizi ... e questo senza passare attraverso una vera rivoluzione industriale. Così siamo passati direttamente da un’economia di sussistenza ad un’economia di sopravvivenza: oggi, i pescatori e gli agricoltori hanno solo la cultura delle sovvenzioni, l’industria produce disoccupati in serie, e i servizi promuovono la precarietà.

In due decenni, il Portogallo, che era uno dei paesi più chiusi d’Europa, è diventato, secondo alcuni indici (che misurano il grado di globalizzazione sociale, politica ed economica), il nono paese più globalizzato del mondo (se volete saperlo, l’Italia è il ventitreesimo, l’Irlanda il decimo, la Grecia il ventinovesimo, e la Spagna il diciassettesimo). Sappiamo che il meccanismo di “produzione” del discorso egemonico influenza la nostra percezione e, di conseguenza, chiuso significa cattivo e aperto significa buono! Succede che questo non è necessariamente vero, soprattutto in termini economici. In questo caso, l’apertura conduce ad un elevato livello di esposizione e vulnerabilità a qualsiasi tipo di cambiamento interno (come la struttura della domanda o potere d’acquisto) o urto esterno, sia di natura strutturale (come la concorrenza internazionale, ad esempio l’entrata della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio o l’adesione dei paesi dell’Est all’Unione europea) che di natura congiunturale, come le crisi cicliche che alimentano il mostro insaziabile del capitalismo speculativo.

L’attuale crisi è un buon esempio di questa situazione: si tratta di una tempesta perfetta in cui si sono uniti i fattori strutturali (economia fragile, aperta e molto indebitata) e ciclici (l’attacco all’Euro e la speculazione sul debito pubblico) che diffondono la devastazione e il caos sociale. In mezzo a questo disastro, all’improvviso, il bravo studente dell’Unione europea è tenuto a mettere le orecchie d’asino.

A peggiorare le cose, il Portogallo non è solo uno dei paesi più globalizzati del mondo, è anche uno dei più asimmetrici d’Europa, o dove c’è maggiore disparità nella distribuzione del reddito. Secondo il coefficiente di Gini (1), soltanto la Lettonia e la Lituania sono più diseguali (il Portogallo è strettamente seguito da Grecia, Regno Unito, Spagna e Italia, tutti al di sopra della media europea). Darò solo un esempio delle contraddizioni che il neoliberismo ha generato nel paese:

Il Salario minimo in Portogallo è 485€. Al Netto (sottratte le imposte) ogni lavoratore porta a casa € 432, e questo in un paese in cui la soglia di povertà è pari a 435€. Così, quasi il dieci per cento della popolazione attiva (la percentuale di lavoratori che percepiscono la retribuzione minima) lavora, ma vive nella povertà più estrema, che peggiora ogni mese. In più, circa il 40% della forza-lavoro guadagna fino a 600 euro, lavorando, non per vivere ma per sopravvivere. Un quarto dei lavoratori hanno contratti a tempo determinato, circa un quinto lavora senza alcun tipo di contratto (che in Portogallo è chiamato ricevuta verde (2)) e, attualmente, il tasso di disoccupazione è del 15% (37% tra i giovani). Il Portogallo è quindi uno dei massimi esponenti della precarietà e del precariato!

Comunque, in cima alla piramide i padroni e le classi sociali più abbienti continuano a vivere faraonicamente: Ad esempio, secondo uno studio recente, i dirigenti portoghesi sono tra i meglio pagati d’Europa. Il venti per cento più ricchi guadagna in media sei volte di più del venti per cento dei più poveri, e anche nelle professioni intellettuali, la differenza tra padroni e dipendenti è di quattro volte (la più grande in Europa).

In questo scenario terribile, dobbiamo aggiungere una delle grandi contraddizioni generate dal neoliberismo: la scolarità media dei dipendenti è superiore a quella dei datori di lavoro (come noi oggi li chiamiamo). Ribadisco: i lavoratori sono più istruiti degli padroni. Portogallo (come la Spagna) è tra i molti paesi europei dove il controllo delle imprese da parte dei lavoratori sarebbe più che un’ideologia buona, un atto di buona gestione!

 

Irlandese

L’Irlanda è scomparsa dalle notizie internazionali. Ciò è comprensibile, date le ridotte dimensioni dell’Irlanda rispetto alle economie più grandi, e alle storie più grandi della crisi dell’Eurozona.

Quindi perché parlarne?

Da diversi punti di vista l’Irlanda è un caso secondario, ma è un caso secondario che in qualche modo riflette i problemi di altre parti dell’Eurozona, e proprio per questo è stata utilizzata come esempio dalla troika.

Si potrebbe dire che questo è l’aspetto più importante del caso irlandese: non la sua capacità di influenzare o “contaminare” il resto dell’Eurozona direttamente e materialmente, ma l’esempio e l’avvertimento ad altre molto più grandi economie dell’Eurozona, che affrontano problemi simili, del duro trattamento che seguirebbe la disobbedienza alle politiche della troika. È inoltre un avvertimento che il default, sia del debito pubblico sia di quello privato, non sarà tollerato.

In ogni caso, utilizzare l’esperienza irlandese come insegnamento morale è problematico. Infatti, questa vicenda è un misto di tragedia e farsa.

Ci sono importanti differenze tra l’esperienza irlandese e quelle di altri paesi dell’Eurozona in difficoltà.

La storia economica recente dell’Irlanda è in gran parte una storia di disastri, e un ruolo importante in questa storia lo gioca l’eredità del colonialismo.

Comunque, nei primi anni ‘90, l’Irlanda emerse da un lungo declino. Ha avuto tassi di crescita tra più alti dell’UE. La rinascita economica era basata in gran parte sugli investimenti diretti dall’estero. Durante gli anni ‘90, le imprese multinazionali, molte delle quali americane, erano attratte dall’Irlanda per le sue bassissime aliquote fiscali sulle imprese (12,5%) e per la sua posizione all’interno del mercato comune europeo. Queste imprese, quindi, costruirono stabilimenti industriali in Irlanda, rivolti all’esportazione nel mercato europeo, specialmente nel settore farmaceutico e nell’informatica.

Questo fenomeno produsse un grande cambiamento in Irlanda. L’emigrazione si fermò, e molti emigranti ritornarono. Tra la fine degli anni ‘80 e la metà dei ‘90, la disoccupazione calò dal 17% quasi allo zero. Ma il boom era in qualche modo falsato. L’industria irlandese non cresceva agli stessi ritmi degli investimenti esteri. Le imprese multinazionali non misero radici forti nel paese. E quando le condizioni economiche cambiarono, in America e a livello internazionale, con lo scoppio della bolla della new economy americana nel 2001, gli investimenti esteri iniziarono a lasciare l’Irlanda.

Dall’inizio degli anni 2000, il boom alimentato dagli investimenti diretti dall’estero fu seguito dalla bolla dell’edilizia. Le proprietà immobiliari crebbero in proporzioni massicce.

Questo processo continuò per gran parte del decennio, prima di soccombere, nel 2008, all’infarto che colpì il sistema finanziario internazionale. Diventò chiaro che alcune banche irlandesi erano in gravi difficoltà. Avevano preso in prestito molto denaro dalle banche estere, soprattutto tedesche e francesi, e prestato massicciamente agli impresari immobiliari. Ora, molti di questi non erano più in grado di ripagare i propri debiti.

Temendo che alcune banche irlandesi potessero fallire, il governo irlandese cedette alle richieste dei banchieri. Nel settembre del 2008, il governo fece un annuncio senza precedenti: il governo garantiva tutti i debiti delle banche irlandesi.

Il governo sperava che questo avrebbe instillato fiducia nei sistema bancario irlandese, e che questo sarebbe stato il salvataggio meno costoso della storia.

Niente di tutto ciò accadde.

Divenne evidente che, in realtà, le maggiori banche irlandesi erano insolventi. La maggior parte dei loro clienti erano impresari edili. Appena il mercato immobiliare crollò, questi clienti fecero bancarotta, e di conseguenza fecero bancarotta le banche. Dato che i debiti delle banche erano garantiti dallo stato, c’era ora il pericolo che lo stato andasse in bancarotta.

Dato che le banche avevano mentito al governo sullo stato dei loro debiti, c’era la possibilità di ritirare la garanzia. Ma a questo punto, la troika composta da Commissione Europea, BCE e FMI entrò in gioco.

Nel novembre del 2010, quando la speculazione sulla bancarotta irlandese iniziò ad aumentare e le rendite dei titoli di stato irlandese iniziarono ad aumentare di conseguenza, il governo irlandese fu costretto ad accettare un “salvataggio” dalla troika, nonostante l’insistenza del governo sul fatto che lo stato fosse adeguatamente finanziato a medio termine e che quindi non ci fosse bisogno di un “salvataggio”.

Il salvataggio era dell’ordine degli 85 miliardi di euro, piuttosto grande per uno stato il cui PIL era di 164,6 miliardi di dollari nel 2010. E l’interesse, quasi il 6%, era punitivo.

Ma questi fatti non sono stati gli aspetti più tragici del salvataggio. La cosa più tragica fu che il debito soccorso non era in realtà affatto debito pubblico: era il debito della banche private, ora trasferito a carico dello stato e dei contribuenti.

Ma insieme alla tragedia c’è la farsa: è molto probabile che i debiti delle banche irlandesi superino di gran lunga gli 85 miliardi di euro indicati dal salvataggio. Alcuni importanti economisti pensano che il debito dello stato irlandese nel futuro prossimo potrebbe ammontare a 250 miliardi di euro.

Quindi, nessuno crede davvero che il salvataggio raggiungerà l’obiettivo annunciato di stabilizzare il sistema finanziario irlandese.

Quello che sta raggiungendo, d’altra parte, è la graduale distruzione della società irlandese.

L’Irlanda ha avuto molte dure manovre finanziarie una di seguito all’altra. Gli investimenti sono stati tagliati, così come i servizi pubblici e lo stato sociale. Questi tagli sono la conseguenza dell’ossessione della riduzione del deficit, portata avanti dalla troika e compresa negli accordi di salvataggio.

Ma i tagli rappresentano un grosso problema in un paese come l’Irlanda, dove le infrastrutture, i servizi pubblici e lo stato sociale erano già sottofinanziati.

Questi tagli alla spesa sono stati accompagnati da aumenti delle tasse, e dimostratosi quasi completamente regressivi. L’equivalente irlandese dell’IVA è stata aumentata, e ovviamente colpisce in maniera più dura i più poveri. E soprattutto è stata introdotta una tassa fissa sugli immobili: ciò significa che ogni proprietario di casa nello stato deve pagare 100 euro all’anno, a prescindere dal fatto se possieda una villa da parecchi milioni o un monolocale.

Queste misure hanno avuto un effetto doloroso sulla società irlandese: lo stesso ufficio nazionale di statistica ha pubblicato recentemente cifre terribili per quanto riguarda l’aumento della povertà, indicando che una persona su 4 ha subito più di un tipo di deprivazione di base nel corso del 2010.

Si tratta di un paese che già aveva il secondo tasso di disuguaglianza più alto nell’OCSE prima della crisi. Seconda, ovviamente, dietro gli Stati Uniti.

A più di 3 anni dall’inizio della crisi, la disoccupazione irlandese è intorno al 15%, ma il dato reale potrebbe essere ancora più alto. E circa il 3% dei lavoratori emigra ogni anno; 1 mutuo su 10 è in condizione di morosità, ed è probabile che questa cifra salga.

Nel frattempo, le banche disfunzionali, che esistono solo grazie ai fondi del salvataggio, rifiutano di fare credito alle imprese irlandesi di successo, rivolte in particolare alle esportazioni, che finora sono sopravvissute alla crisi.

Con questa combinazione di fattori, l’Irlanda non si può aspettare una ripresa economica in tempi brevi. Ma allora, il “salvataggio” della troika non era davvero destinato alla ripresa economica irlandese. Se aveva un obiettivo, era proteggere le banche franco-tedesche, e indicare un esempio per avvertire le maggiori economie in difficoltà, come Spagna e Italia.

All’interno dei termini del salvataggio e dell’austerity, il futuro dell’Irlanda appare cupo. Ma anche paesi con tradizioni molto più forti di mobilitazione popolare rispetto all’Irlanda, come la Grecia, non sono riusciti a premere sui propri governi affinché abbandonassero i pesanti pacchetti di salvataggio.

 

Spagnola

Innanzitutto, volevo far notare - come i miei compagni - che non dovremmo prendere i casi della Grecia, il Portogallo, l’Irlanda, la Spagna (e l’Italia!) come casi eccezionali, come paesi poco diligenti, pigri e disorganizzati che meritano l’intervento della razionalità delle autorità europee. Questo sarebbe un grosso errore, staremmo a pensare all’elefante, come diceva Lakoff (3), cioè, staremmo a riprodurre la formula del discorso d’élite politica ed economica europea e dei mezzi di comunicazione di massa. Non sono misure di salvataggio, sono misure di sequestro. Dobbiamo capire il comportamento testardo della Troika in relazione a questi paesi, comportamento che non è cambiato malgrado tutte le gravi e inutili misure d’austerità che questi paesi hanno applicate, come la presenza di un movimento di opposizione chiave nell’Unione Europea: la crisi del debito come opportunità per eseguire una ristrutturazione di grande importanza delle economie europee che favorisca i processi di accumulazione del capitale.

È interessante notare che a differenza della Grecia e del Portogallo (o persino dell’Italia), ma mi sa anche per l’Irlanda, l’origine della crisi economica nella Spagna non è stata causata dalla crescita del debito pubblico, ma dall’esplosione del debito privato (delle banche, ma anche delle famiglie), che aveva aumentato in modo continuo negli ultimi anni in conseguenza della bolla edilizia e dei prestiti a basso tasso d’interesse.

Riguardo al modello di crescita spagnolo, basato sugli affari edili, il turismo e il settore dei servizi, volevo sottolineare che non è un modello nuovo, proprio degli anni 90 (come magari in Irlanda), ma è l’eredità del modello di sviluppo franchista  degli anni 60. Un modello che, anche se adesso è criticato dall’UE, è stato promosso (e lodato) da questa da quando la Spagna è entrata nell’UE nel 1986, data la specializzazione produttiva promossa al suo interno.

Comunque, anche nel periodo di crescita, questo modello di sviluppo, appoggiato sia dai governi del PP sia dai governi di Zapatero, era contestato per la sua insostenibilità da alcuni movimenti sociali e fasce di cittadini, particolarmente dal movimento ecologista, femminista e dai giovani precari (“V de Vivienda”, movimento studentesco). Perché effettivamente questo modello di crescita era, da un lato, molto iniquo, regressivo (pensate che gli stipendi reali non sono aumentati durante il periodo del boom; il tasso di lavoro a tempo determinato era circa il 33%; il tasso di disoccupazione era intorno al 10% al meglio); da un altro lato, il modello era basato sulla depredazione del territorio, su un consumo eccessivo di acqua e, in più, sul sovraccarico di lavoro assunto dalle donne (e dalle donne migranti specialmente).

In Spagna le misure di austerità cominciano a essere introdotte più tardi degli altri paesi PIIGS. Nella sua seconda legislatura, dal 2008, Zapatero ha tentato senza successo di combattere la crisi con assurde misure di sostegno alle opere pubbliche (dunque, tentando di rigonfiare la bolla edilizia), ha promesso mille volte che non avrebbe toccato la spesa pubblica… ma alla fine, in maggio 2010, costretto dall’UE e dai cosìddetti “mercati” ha annunciato un primo pacchetto di misure di austerità per valore di 15 miliardi di euro. Le misure riguardavano principalmente: tagli agli stipendi degli impiegati statali, congelamento delle pensioni, eliminazione del “assegno bambino” (4), tagli nelle politiche di assistenza, riforma del mercato di lavoro (per flessibilizzare i tipi e la durata dei contratti a tempo determinato, flessibilizzare il licenziamento e la negoziazione collettiva) e riforma delle pensioni (aumento dell’età di pensionamento e incremento degli anni di contribuzioni necessari per avere il diritto alla pensione).

Comunque, in confronto con tutte le misure che il governo del PP ha implementato da dicembre 2011, queste misure del 2010-11 sembrano adesso quasi una sciocchezza. Questi alcuni elementi per comprendere l’entità delle misure adottate:

-          Una seconda riforma del mercato di lavoro molto dura

-          34% in ricerca e sviluppo

-          34% in training

-          21% in educazione + 10.000 milioni in più in educazione e sanità

-          Riduzione degli stipendi degli impiegati statali e aumento del loro orario di lavoro.

-          Introduzione del copago (5) per i medicamenti (anche per i pensionati)

-          21% in politiche attive di lavoro

-          166 milioni in meno per borse di studio

-          7.900 milioni di meno in spesa sociale

Dall’altra parte il governo spagnolo ha evidenziato chiaramente da che parte sta: 0% di tagli alla chiesa; solo 2% alle spese della “Casa del Re”; e amnistia fiscale per i grandi evasori fiscali.

Mariano Rajoy, dopo massive manifestazioni contro i tagli sociali in tutta la Spagna, ha detto: “ogni venerdì continueranno le riforme; anche il prossimo venerdì”.

Comunque, per avere un’immagine completa dei tagli, a tutte queste misure che ho citato si dovrebbero aggiungere i tagli che ogni regione (Comunidad Autónoma) ha introdotto da 2008. È necessario notare che in Spagna le regioni hanno le competenze sulla sanità, l’educazione e i servici pubblici.

 

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Movimenti e opposizione ai diktat in Portogallo, Irlanda e Spagna

 

Portoghese

Con questa dialettica sociale ci si aspettava che la reazione del popolo di un paese che si vedeva costretto a rinunciare alla propria sovranità e a sottoporsi ad un intervento esterno della troika che richiedeva duri sacrifici finanziari, fosse quella di reagire per impedire la rapina. Oppure, l’applicazione di misure di giustizia distributiva che richiedono uno sforzo maggiore da parte dei più ricchi. In Portogallo non è successa nessuna delle due cose! Né le persone si sono ribellate, né i più ricchi hanno pagato. Anzi, il popolo si è piegato...”Eppur non si muove”; e i più ricchi non sono stati nemmeno sfiorati dalla crisi. Sembra incredibile, ma è effettivamente così.

In Portogallo c’è una espressione popolare che dice: “i ricchi paghino la crisi”. Probabilmente, la popolarità è dovuta al fatto che questo non è mai successo! In pratica, sono i più svantaggiati, che hanno sempre pagato la crisi e l’attuale non fa eccezione. La cosa peggiore è che, purtroppo non c’è populismo in questa espressione popolare. Alcuni grafici presi da uno studio dell’Osservatorio sulla situazione sociale della Commissione europea sugli effetti delle misure di austerità nel reddito disponibile delle famiglie in sei paesi dell’Unione Europea confermano quanto detto sopra. Questo fattore è molto importante perché, secondo questo studio, il modo in cui sono distribuiti i costi della crisi ha una diretta influenza sulla stabilità macroeconomica, il recupero finanziario e l’accettazione popolare delle politiche.

In sintesi, secondo il rapporto “il peso dell’austerità sul reddito disponibile è chiaramente e fortemente regressivo in Portogallo ... e chiaramente e fortemente progressivo in Grecia”. Ciò significa che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la situazione sociale portoghese, dopo l’invasione dei troikani, è probabilmente ancora più drammatica di quella greca. Fino a poco tempo, in Portogallo, i ricchi hanno mantenuto i loro redditi a scapito della perdita di reddito dei poveri, mentre in Grecia la regolazione era piu giusta o meno ingiusta. Nello stesso documento si legge che “utilizzando una soglia di povertà fissa l’effetto delle misure d’austerità sul rischio di povertà aumenta, specialmente in Portogallo e in particolare tra i bambini.” Un quinto della popolazione è ora a rischio di povertà grave.

Io non vorrei terminare senza lanciare un avvertimento sui numeri. I numeri sono molto importanti per chiarire la situazione e confutare la narrativa egemonica, ma non ci danno un quadro preciso della situazione sul terreno. Ad esempio, non dobbiamo solamente contare il numero, ma raccontare le storie di bambini che non nascono perché non ci sono soldi per sostenerli e di un paese che sta invecchiando, ma che non ha un posto per gli anziani che muoiono soli e senza soldi per pagare i farmaci o il riscaldamento nel paese più tropicale d’Europa; non dobbiamo solamente contare il numero, ma raccontare le storie dei disoccupati, che si immergono nella depressione o addirittura nel suicidio; non dobbiamo solamente contare il numero, ma raccontare le storie della emergenza d’una nuova ondata d’emigrazione che fa sanguinare il paese. Abbiamo bisogno di contare e raccontare tutto questo.

Penso che per voi l’aspetto più positivo di questa conversazione sia l’occasione per scrutare il futuro e fare di tutto per impedire che il nostro presente comune sia il futuro dell’Italia e dell’Europa. Credo che solo una forte azione popolare possa porre fine a questa pazzia. In questo momento, in Grecia non c’è governo e in Italia non c’è governo democratico. Compagni! Non c’è via di mezzo: o il neoliberismo finisce con la democrazia o la democrazia finisce con il neoliberismo!!

Non basta pensare...basta! Dobbiamo agire e fare vedere a tutti che ... basta! Andare a conferenze (anche se non parliamo la lingua) e spiegare perché ... Basta; Votare, votare per i partiti che dicono... Basta! Andare, andare in strada...Protestare e gridare basta! Perche la sollevazione popolare non è il problema ma la soluzione per questa crisi! Dunque...Autonomi, compagni, amici: Avanti alla riscossa!!!

 

Irlandese

Per la maggior parte del tempo dall’inizio della crisi, in Irlanda ci sono state ben poche proteste e mobilitazioni. Gli sviluppi politici più imponenti sono stati di tipo elettorale: la politica irlandese è stata per lungo tempo strutturata attorno ai due partiti politici chiave di Fianna Fail e Fine Gael. Due partiti centristi che hanno avuto la loro origine nelle aspre divisioni seguite alle lotte per l’indipendenza irlandese dei primi del secolo scorso, ma che all’inizio del ventunesimo secolo non mostravano che poche differenze sotto il profilo politico e ideologico.

Fianna Fail, tradizionalmente il “prevalente” tra i due partiti dominanti, ha avuto la sfortuna di essere al governo quando la crisi del 2008 ha colpito per la prima volta, ed ha pagato la sua gestione disastrosa della fase venendo praticamente spazzato via alle elezioni del 2011. I candidati della sinistra che si sono opposti alle misure di salvataggio e di austerity, invece, hanno ottenuto risultati senza precedenti, con il solo problema che per la sinistra irlandese un risultato elettorale senza precedenti significa ottenere qualcosa come uno o due seggi in parlamento.

Quindi la pseudo-sinistra nazionalista del Sinn Fein, tradizionalmente l’ala politica dell’ormai defunta Provisional IRA, ha ottenuto 14 seggi su 166, mentre l’Alleanza della Sinistra Unita, di orientamento generalmente trotzkista, ne ha ottenuti 5. Infine, una manciata di seggi sono andati ad altri candidati indipendenti più o meno di sinistra ma dall’orientamento politico quantomeno ambiguo.

Ma i veri vincitori delle elezioni del 2011 sono stati il Fine Gael – l’altro grande partito centrista della politica irlandese e, se possibile, perfino più di destra del Fianna Fail e l’insipido (tiepido) Partito Laburista Irlandese che, malgrado una rimanenza di retorica di sinistra prima delle elezioni, non si è fatto più di tanti scrupoli ad allearsi con il Fine Gael per formare un governo di coalizione che ora non solo porta avanti con zelo le politiche di austerità “post-salvataggio”, ma si preoccupa anche di pagare miliardi di euro di debiti delle banche irlandesi insolventi, non coperti dalla notoria garanzia bancaria né da nessun altro protocollo legale.

In altre parole, lo stato irlandese sta pagando di sua spontanea volontà a una quantità di anonimi obbligazionisti stranieri i miliardi di euro che le banche irlandesi devono loro. È evidente che il governo irlandese lo faccia a causa della forte pressione politica che riceve da parte della Troika, ma il governo non sembra opporsi più di tanto.

Ma a parte il sussulto elettorale del 2011, le piazze sono rimaste vuote. Su richiesta delle unioni sindacali ci sono state, a intermittenza, grandi marce di protesta contro i tagli e contro l’austerità. Ma a parte occasionali manifestazioni, il movimento sindacale irlandese non è sembrato in grado di poter guidare alcuna campagna di massa per opporsi alle attuali politiche anti-crisi, anche perchè il sindacato ha da tempo rinunciato alla militanza per diventare partner devoto insieme a governo e unione degli industriali, firmando accordi corporativisti per la definizione dei salari.

E aldilà dei sindacati, la sinistra irlandese è cronicamente debole.

Nel corso degli ultimi sei mesi ci sono stati diversi segnali in direzione di un aumentato malcontento verso la presunta necessità di caricarsi sulle spalle il peso dell’austerità.  A Marzo, il governo ha introdotto una nuova tassa sulla casa da pagarsi, per quanto possa sembrare incredibile, con un contributo forfettario di cento euro a famiglia ogni anno; e a quanto pare la campagna contro la tassa ha ottenuto un certo successo, dal momento che la metà di coloro che l’avrebbero dovuta pagare si sono rifiutati di registrarsi, o semplicemente di pagarla.

Inoltre, ci sono state una serie di frammentarie forme di resistenza a pignoramenti e sfratti. Ma ciononostante, l’elettorato irlandese ha votato per l’accettazione del Fiscal Compact (6) con un referendum (richiesto dalla legge irlandese) in maggio. Il governo ed i partiti maggiori hanno condotto una campagna allarmistica, avvertendo che il paese avrebbe potuto esaurire le risorse monetarie, se non avesse accettato il Fiscal Compact.  Sembra che questa strategia abbia funzionato: l’affluenza per il referendum è stata bassa, ma circa il 60% ha votato a favore. Nel frattempo, la strategia dei partiti della sinistra di presentare il voto come un “referendum sull’austerità” è fallita.

Certo, scene di contestazione di massa, come quelle che si sono viste da altre più turbolente parti nell’Eurozona, non sono certo rintracciabili in Irlanda. E chi di noi vorrebbe opporsi al “salvataggio” si trova nella strana posizione di invidiare i greci.

 

Spagnola

La Spagna ha attirato l’attenzione di tutta Europa grazie al movimento degli “Indignados” o “15M” apparso in maggio dell’anno scorso quando la piattaforma “Democracia Real Ya”, creata su Facebook e senza rapporti con partiti né organizzazione dei movimenti sociali, ha chiamato i cittadini a manifestare in tutte le città della Spagna. Come sapete, la manifestazione in Madrid è finita  nell’occupazione della piazza del Sol. Nonostante che l’occupazione sia stata sgomberata dalla polizia, lo sgombero violento ha prodotto una reazione sociale di grande effetto e così è nata una delle espressioni più forti del movimento: “Toma la plaza”, le occupazioni delle piazze in tutte le città, occupazioni attive fino a luglio 2011.

Tra maggio del 2010, quando cominciano le politiche dei tagli e il tasso di disoccupazione è già altissimo, al maggio 2011 non ci sono state grandi mobilitazioni, almeno non all’altezza degli attacchi (Juventud Sin Futuro, sciopero generale del 29 settembre, manifestazioni sindacali), fatto che sorprendeva e frustrava i militanti dei movimenti sociali. 

Ritornando al 15-M, la solita domanda è: ma com’è questo movimento bizzarro che dice di non essere né di sinistra né di destra? Chi lo compone? Che forza ha? Qual è il suo programma? Il fatto è che il 15-M è un movimento difficile da categorizzare: è un movimento diffuso, molto eterogeneo, con diverse espressioni, un movimento che ha provocato un grande consenso interno (e una grande legittimità sociale) senza avere un discorso omogeneo né un programma chiaro, o precisamente perchè non li ha. Comunque, si può dire che le due dimensioni forti che sono radicate nella base di questo movimento sono: il malessere per la crisi economica e la sua gestione; e il malessere riguardo alla classe politica, la corruzione e il deficit democratico. Direi che la seconda dimensione è stata più forte, o almeno è quella che ha attratto più gente (senza esperienza politica) verso il movimento. La mancanza di un discorso omogeneo e di un programma chiaro è stata senza dubbio la sua forza, ma al mio parere a medio-lungo termine è stata anche la sua debolezza.

Comunque, alcuni osservatori hanno utilizzato la metafora dell’ “ambiente” per riferirsi al 15M. Il 15-M non avrebbe ottenuto conquiste concrete, ma avrebbe creato un o scenario favorevole alla resistenza ai tagli e alla democrazia. E non è riuscito a creare quest’ambiente solo con slogan o parole, ma anche, e soprattutto, con forme d’azione diretta come l’occupazione dello spazio pubblico, la pratica della democrazia diretta, l’apertura del movimento alla partecipazione popolare (oltre i circuiti dei soliti attivisti) e con le azioni contro gli sfratti. Ma evidentemente questi successi non possono nascondere le debolezze e le sfide organizzative che il 15-M deve affrontare (tra gli altri creare canali organizzativi che siano più o meno permanenti, senza cadere nella trappola della burocratizzazione o l’istituzionalizzazione).

Per completare la mappa delle proteste contro l’austerità in Spagna, si deve anche far riferimento ad altri attori sociali importanti nella sinistra: a parte i diversi MMSS (buttati adesso nel 15-M: ecologisti, femministi, associazioni di vicini, etc.), la sinistra in Spagna è composta da Izquierda Unida (IU, che adesso avrebbe il 10% dei voti, secondi i sondaggi) un partito statale alla sinistra del PSOE  e altri piccoli partiti senza rappresentanza elettorale. L’altro attore importante è il sindacato: ci sono due grandi sindacati l’Union General de Trabajadores de España (UGT ) e  Confederación Sindical de Comisiones Obreras (CCOO), molto moderati e burocratizzati, ma senza i quali sarebbe difficile organizzare grandi mobilitazioni, e due sindacati anarchici più piccoli, ma più combattivi e con più legami con i movimenti sociali la Confederación Nacional del Trabajo (CNT) e la Confederación General del Trabajo (CGT) .

Al mio parere, una delle sfide politiche più importanti adesso in Spagna è riuscire a far convergere, rispettando sempre la diversità, il 15M con la sinistra sociale e la sinistra politica. Solo con una certa unità d’azione a livello statale (e direi anche europeo) si potrà combattere il mostro del neoliberismo che governa adesso l’UE.

Per finire, volevo solo far notare che dall’autunno scorso, il movimento 15M ha perso forza, si è frammentato in diverse lotte (movimento contro gli sfratti, marea verde, marea viola, ecc.) e non è riuscito a fermare le successive misure di austerità eseguite dal governo centrale e dai governi regionali. Senza dubbio questo è legato alla debolezza organizzativa del movimento e alla sfida di cui parlavo prima.

 

 

Note:

 

1) Introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini, è una misura della diseguaglianza di una distribuzione. È spesso usato come indice di concentrazione per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza.

2) Un sistema di remunerazioni molto particolare, elaborato nel 1978 dal governo socialista di Mário Soares. Originariamente, esso era riservato ai liberi professionisti: medici, avvocati, consulenti, artigiani. Tali coupon, in realtà di colore blu, sono quelli che consentono a questi lavoratori, in quanto prestatori di servizi, di farsi pagare. João Bilhim, sociologo del lavoro e presidente dell’Istituto di scienze politiche, spiega che «Questo sistema risale alla legislazione sul lavoro attivata dopo la “rivoluzione dei garofani”. All’epoca il potere era nelle piazze, ed i sindacati avevano ottenuto accordi collettivi estremamente favorevoli ai lavoratori. Licenziare diventava quasi impossibile. Con le “ricevute verdi”, il governo Soares ha voluto introdurre una dose di elasticità in un sistema molto rigido.» Né ferie pagate, né premio di anzianità, né tredicesima e quattordicesima Le «ricevute verdi» hanno una caratteristica particolare: il datore di lavoro che fa ricorso ad esse non versa alcun contributo (che nel quadro di un classico contratto di lavoro ammonterebbero al 23,75% del salario). Quanto ai prestatori, essi devono versare le proprie quote alla Sicurezza sociale ed alla cassa previdenziale della loro categoria. I loro diritti sociali sono ridotti ai minimi termini: possono essere licenziati da un giorno all’altro senza preavviso; in caso di malattia, ricevono l’indennità dopo solo trentuno giorni di assenza, al posto dei tre previsti dal regime generale; e non hanno diritto ad alcun indennizzo di disoccupazione. Né ferie pagate, né premio di anzianità, né tredicesima e quattordicesima mensilità.

3) George Lakoff (24 maggio 1941) è un linguista statunitense, professore di linguistica (in particolare, linguistica cognitiva) all'Università di California Berkeley. La filosofia del corpo e il movimento no-global sono stati pesantemente influenzati dall'opera di Lakoff, forse quanto da quella del suo collega Noam Chomsky.

4) Contributo statale di 2.500 euro per famiglie con figli.

5) Contributo sui farmaci, il corrispondente del ticket in Italia.

6) Il Fiscal compact, formalmente Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell'unione economica e monetaria, noto anche come Patto di bilancio, è il trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance dell'unione economica e monetaria che è stato firmato il 2 marzo 2012 da 25 Stati dell'Unione europea.

 I principali punti contenuti nei 16 articoli del trattato sono:

            - l'impegno ad avere un deficit strutturale che non deve superare lo 0,5% del PIL e, per i paesi il cui debito è inferiore al 60% del PIL, l'1%;

            - l'obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del PIL, di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni, ad un ritmo pari ad un ventesimo dell'eccedenza in ciascuna annualità;

            - ogni stato deve garantire le correzioni automatiche quando non raggiunga gli obiettivi di bilancio concordati ed è obbligato ad agire con scadenze determinate;

            - le nuove regole devono essere inserite preferibilmente in norme di tipo costituzionale o comunque nella legislazione nazionale;

            - la Corte europea di giustizia verificherà che i paesi che hanno adottato il trattato l'abbiano trasposto nella legislazione nazionale;

            - il deficit pubblico, come previsto dal Patto di stabilità e crescita, dovrà essere mantenuto sempre al di sotto del 3% del PIL; in caso contrario scatteranno sanzioni semi-automatiche;

            - ci saranno almeno due vertici all'anno dei 17 leader dei paesi che adottano l'euro;

            - il trattato intergovernativo entrerà in vigore quando sarà stato ratificato da almeno 12 dei paesi interessati.



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