CONTROINFORMAZIONE INTERNAZIONALE N.12

UNA LETTERA DALL'ESILIO

UNA LETTERA DALL'ESILIO

Cari amici di "Liberation" e del "Manifesto"

mi tocca di avvertirvi che anche solo leggendo, ed ancor più pubblicando, queste poche righe correte il rischio di finire incatenati in galera. Se vi sembra più logico, smettete dunque subito e bruciate la lettera. Per il caso contrario, a vostro rischio e pericolo, continuo a scrivere.

La ragione della pericolosità, per voi e per chiunque altro, di entrare in contatto con me, direttamente o indirettamente, è che io sono ricercato da tutte le polizie del mondo in virtù di una serie di mandati di cattura internazionali emessi da non so più quali procure generali della indecorosa Repubblica Italiana (non molto tempo fa un cittadino svizzero condannato in Italia con me nello stesso processo - condannato in contumacia - e che certamente si sarà dimenticato dello sventurato avvenimento, è stato arrestato a Bombay, dove faceva dell'innocente turismo, dalla polizia indiana ed estradato in Italia), e ciò a una decina di anni, perché - con una sorpresa per me immutata nel tempo (e che ritengo non muterà mai) io sono considerato un terribile criminale. C'è stato un tempo in cui ho considerato questo fatto un onorevole conclusione di una modesta e non eclatante carriera di avvocato - impiegato - insegnate, nonché di marito - padre di famiglia - all'occasione amante, non particolarmente brillante. Il fatto è che ho avuto molto tempo per riflettere: un paio di anni in galera e molti, ormai molti anni di esilio.

Ebbene mi compete di spiegarvi, molto brevemente, la ragione per cui io godo di questa alta considerazione presso le polizie di tutto il mondo (ciò vale non solo per me, ma per molti altri nelle mie condizioni). Una volta la polizia di un paese in cui mi trovavo mi ha letteralmente "deportato", solo per qualche giorno in verità, insieme ad un manipolo di altri bravi giovani, in un paesino isolato sotto sorveglianza di un numero di poliziotti due o tre volte superiori al numero dei "deportati", nel timore, così si diceva, che organizzassimo un attentato a Reagan che era in quei giorni in visita da quelle parti. Poco dopo un mio vago conoscente, per ragioni ignote è stato espulso dallo stesso paese nel Burundi dove gli alti Tutsi esercitano la dittatura sui piccoli Hutu (e si tratta solo di alcuni esempi).

In breve: a quanto pare quello di impedirmi (a me come a molti altri) di prender parte, seppure nei ruoli non certo eccelsi che mi hanno consentito e mi consentono le mie qualità e capacità, alla lotta di classe del nostro paese ha costituito un obiettivo degno dell'attenzione di numerosi magistrati e poliziotti (il che, in un certo senso, dovrebbe tornarmi ad onore), anche a costo di montare "palle" di ogni genere, di una verosimiglianza men che minima.

Io sono stato condannato (e sono ricercato) perché accusato (a torto) di aver tentato di trasportare sulle mie spalle in Italia dalla Svizzera dell'esplosivo, per ragioni che nessuno ha mai saputo spiegare, esplosivo che in ogni caso in Italia non è mai arrivato. Inoltre sono stato condannato (e sono ricercato) perché accusato (a torto) di aver cercato di convincere un perfetto imbecille a diventare non gladiatore, ma brigatista rosso (cosa che in ogni caso il demente non ha mai neppure tentato di fare, neanche alla lontana. Infine sono stato condannato (e sono ricercato) perché accusato (a torto) di avere informato dei brigatisti rossi e non dei gladiatori, a che cosa corrispondessero le chiavi "trovate" in tasca ad un arrestato non gladiatore. (In realtà chiavi mai trovate, come nessuno si è mai preoccupato di stabilire che cosa avrebbero dovuto aprire. Ovvio, d'altronde, perché le chiavi in questione non sono neppure mei esistite).

Ma le prove, cari amici, le prove! Tutte dichiarazioni dei coimputati confessi dei più gravi reati, ma pentitissimi come agnellini, e, pertanto, oggi liberi come l'aria e coccolati dalle polizie di tutto il mondo. Io sono qui a scrivere lettere dal mio eterno e precario esilio.

Non molto tempo fa, i miei difensori hanno tentato di fare revisionare il "processo delle chiavi", sulla base di una dichiarazione del loro presunto detentore, secondo la quale egli puramente e semplicemente non deteneva alcuna delle famose chiavi. L'istanza è stata respinta in considerazione del fatto che il dichiarante era stato mio coimputato, senza considerare il fatto che chi mi aveva accusato e mi aveva fatto condannare era parimenti un mio coimputato, che non mi conosceva neppure, è che è uno dei "pentiti mascalzoni" più evidenti della nostra miserevole storia.

Che ne dicono quelli che, davvero o per finta, credono nello Stato di diritto?

Non ignoro naturalmente, la furia "giustizialista" che si è di recente abbattuta sull'Italia. non ho stati d'animo contro il dr. Di Pietro ed ancor meno a favore della famiglia Craxi. Tuttavia mi dispiacerebbe sapere chi tira le fila di questa nuova macchina di pentitismo. Non sarà per caso il solito principe gobbo che regola i suoi conti in sospeso con i suoi soci criminali?

Quella del "pentitismo" è una macchina che opera senza arresto e divora alla fina quegli stessi che l'hanno fabbricata e gestita.

In verità non è tutto. Qualche volta sono stato anche assolto.

Ricercato per anni sulla base di un mandato di cattura che mi colpiva, insieme a centinaia di altri bravi giovani, (né bravo, né giovane sono appellativi che competono a me personalmente), per aver promosso la guerra civile in Italia, sono/siamo stati tutti assolti perché di questa guerra civile malauguratamente (dico io) non si trovava traccia. Che emozione cari amici, che emozione!

Ma non basta ancora. Un giudice, della cui salute mentale molti dubitano (sono certo che ha spiccato mandato di cattura contro Arafat, e suppongo contro il defunto Breznev, contro Deng, ecc.), ed, ovviamente, sulla base di dichiarazioni di un pentito (mio ex-cliente che mi vergogno di avere a suo tempo tirato fuori dalla galera, sulla cui salute mentale è lecito nutrire seri dubbi), mi ha rinviato a giudizio per fatti letteralmente inesistenti e che se fossero anche mai esistiti, avrebbero costituito comunque reati largamente prescritti. Si dice che in sede di giudizio sono stato assolto. Grazie tante. Naturalmente il mio accusatore (reo confesso di gravi reati) ed il suo giudice sono liberi come l'aria, ed io sono qui a scrivere lettere dal mio eterno e precario esilio.

Ma, scusate, l'ultima e più comica circostanza (fra quelle a me note), un altro giudice ha tentato (con scarso successo, bisogna dire) di far stabilire da un famoso linguista se i miei tipici (sic!) giri di frase corrispondessero o no ai giri di frase usati in certi documenti "sovversivi". Credo che il senso dell'umorismo del famoso linguista abbia in definitiva evitato che questo capitolo della tragicommedia avesse seguito... Ci sarà di certo anche dell'altro, di cui non sono informato.

Naturalmente nel contempo sono stato privato, vita natural durante della facoltà di esercitare la professione di avvocato e di insegnante, e non godo del minimo diritto ad una pensione, nonostante la mia relativamente tarda età. Vedete voi le conseguenze.

Ma ora voglio lasciar perdere questi (per me) tuttora incombenti retroscena.

Certo gli stravizi finiranno con l'accelerare la conclusione del naturalmente breve percorso. E lo stravizio è il mio solo vizio. Non saranno stati a farlo i processi, le detenzioni, le condanne e le ricerche poliziesche, tutti fatti che (lo devo ammettere) oltre ad avermi infinitamente sorpreso, mi hanno a tal punto (non sempre però) divertito da contribuire ad allungarmi la vita, invece di abbreviarla.

Desidero brevemente informarvi delle acquisizioni intellettuali che mi sono state consentite da questo lungo periodo di riflessione.

Devo ammettere che, in conclusione, ed a modo mio, anch'io mi sono pentito.

Desidero spiegarvi il senso di questo "a modo mio".

Io non ho tentato di portare dell'esplosivo dalla Svizzera in Italia. Ma ogni volta che leggo - specialmente di questi tempi - un giornale italiano, mi pento di non averlo fatto in tempo utile.

Io non sono stato un brigatista, né ho collaborato con le BR altrimenti che difendendone alcuni militanti davanti ai tribunali della prima repubblica. In definitiva mi pento quanto meno di non aver praticato una milizia politica più attiva ed offensiva di quella che ho effettivamente praticato. Sono stato incoerente rispetto all'essenziale delle mie più profonde convinzioni.

Negli anni '70 (e perché non ora?) non era solo un dovere civico difendere gli interessi della classe (operaia e proletaria) da gladiatori, allora chiamati con i più svariati nomi e la cui attività era a molti ben nota, senza attendere le rivelazioni del principe gobbo (con la massima simpatia per i gobbi che non siano principi). Dico "non solo" perché per chi la pensa nell'ordine di idee a cui mi onoro di appartenere indegnamente (cioè per i comunisti), la difesa senza l'attacco costituisce una pura inetta astrazione. Negli anni '70 le condizioni soggettive (altra è la questione del giudizio da portare sulle condizioni oggettive) per coniugare la difesa con l'attacco erano certo state più favorevoli di oggi (benché ieri, oggi e domani le regole di fondo non cambino) e non averle praticamente sfruttate costituisce una responsabilità per molti, ad esempio me. ogni considerazione va riservata a chi, con incerte fortune, allora ha cercato di farlo. Quali che siano le sue attuali dichiarazioni. La stanchezza ed il male di vivere non sono stati inventati (solo sfruttati) da giudici e poliziotti. Stanchezza e male di vivere meritano che non si perda in vane polemiche (con l'evidente eccezione dei tradimenti e delle falsificazioni interessate). Del resto le città d'Italia sono piene di vie e piazze dedicate a Silvio Pellico, che non è stato il primo e non sarà l'ultimo del genere.

Negli anni '80 praticare efficaciemente la lotta di classe è stato certamente più difficile. nessuno ha fatto abbastanza. Io certo pochissimo e niente del tutto, dominato dalla preoccupazione di evitare le imboscate di queste numerose polizie, stolte nel cervello, ma certo attrezzate nei mezzi materiali in modo, per la mia modesta persona, spropositato. E di risolvere gli ovvi problemi di sopravvivenza.

Gli anni '90, ormai in corso, presentano dati nuovi, sia oggettivamente che soggettivamente. Vedremo.

E lo vedremo non solo per quanto riguarda ciascuno di noi, che oramai ha una certa età fisica e mentale, ma soprattutto per i più giovani, ai quali non è escluso possa venire qualche buona idea, che (speriamo bene) anche i vecchi finiranno con l'adottare. Per intanto per me, come per tanti altri, rinchiusi nelle galere, fuggiaschi qua e là, incriminati in Italia in una precaria condizione di cittadini di secondo ordine, per le stravaganti dichiarazioni di un "pentito" qualunque, per il fanatismo fascista di certi magistrati, mi sembrerebbe un punto di partenza non rinunciabile, anche se non essenziale per la storia della lotta di classe, ottenere lo stesso trattamento di un Licio Gelli (ben che io non abbia poesie da recitare in TV) o di un gladiatore qualunque (magari prossimo alla sessantina).

La Suprema Corte ha ripetutamente detto che una chiamata in correità senza riscontri obbiettivi per un mafioso presunto non basta. Perché per tanti (tra i quali mi metto) , è invece bastata e sta bastando? Perché se per Licio Gelli la mancata estradizione della Svizzera per un certo processo, impedisce anche la stessa celebrazione del processo in Italia, per altri non estradati (sempre dalla Svizzera) per un certo altro processo (all'occorrenza lo stesso mio processo), il processo è stato fatto, la condanna pronunciata ed il mandato (internazionale) emesso? Noi "criminalizzati rossi" dovremmo quanto meno ottenere un eguale trattamento giudiziario di quello riservato ai presunti mafiosi, criminali fascisti e gladiatori di ogni genere.

Oppure i nostri giudici si torcono le mani per non averci giudicati, a suo tempo, incappucciati, con microfoni deformanti della voce, senza pubblico, senza difesa, senza appello, come fanno oggi i giudici militari peruviani nei confronti di Guzman, e si propongono gli stessi risultati sebbene conseguiti con altri mezzi? Il paragone può sembrare esagerato, ma solo ciascuno di noi sa quello che vale e costa la sua vita.

Ciò almeno secondo la logica dello Stato "democratico" e "di diritto" e di quelli che mostrano di crederci.

Riconosco a priori che questa pretesa ha dell'insensato (ho nel passato cercato a lungo e con fatica di farla valere, non solo per me, ma per molti altri, ma invano) e che serve solo (ed anche poco) a dimostrare l'insensatezza e la reale vocazione criminale dei nostri giudici, poliziotti e compagnia. E certo non è che a voi queste considerazioni vanno poste. A voi che anche se detenete la più microscopica porzione di potere in questa disgustosa compagine sociale, non indirizzerei mai una lettera.

Mi lamento? Ebbene sì, mi lamento. Non nei confronti di uno Stato di diritto, in cui non ho mai creduto, di una magistratura la cui "dipendenza" ho ben conosciuto, di una polizia del cui risibile "servizio del popolo" non vale nemmeno la pena di parlare. Mi lamento dei compagni con i quali ho condiviso anni ed anni di lotte, che (a parte qualcuno, veramente pochi) ora trovano comodo pensare che gli esuli e le galere sono simpatiche scelte di vita e chi ci sta, presumibilmente ci si trova bene. Voglio ricordare che non è così. E basta.

Per vostra consolazione ho concluso, sempre che non abbiate già logicamente deciso di distruggere la lettera dopo la lettura delle prime righe. Chi vivrà, vedrà.

Non ho grandi pretese, ne grande fiducia. Non so, in verità, neppure se veramente mi interesserebbe molto tornare in Italia. Probabilmente mi basterebbe poter usare il mio nome senza rischi e (perché no) anche poter guadagnare da vivere come uno qualunque.

Naturalmente e come ogni rivoluzionario dabbene non ho rinunciato a fare la rivoluzione per il comunismo. Insomma non sono un post-moderno. Forse sono cose fra di loro incompatibili. E' una questione che merita approfondimento. Forse mi basterebbe solo che qualcuno facesse almeno dello humor su tragi-commedie di questo genere.

Vi ringrazio dell'attenzione e dell'eventuale pubblicazione.

Ottobre '92

Sergio Spazzali

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A SERGIO SPAZZALI

Ti riconosco, Sergio, quando scrivi
nella tua ironica lettera in esilio,
anch'io, a modo mio, sono un pentito,
avrei dovuto farlo, non l'ho fatto,
passare dalla difesa all'attacco.

La tua voce risento nelle mattine
grigie di Milano, il tuo sorriso
rivedo all'Alfa, alla Pirelli,
il tuo grido risento,

quella sera, con Feltrinelli,
nel corteo all'assalto del Corriere,
nel tuo cordone dei compagni ti vedo
a Quarto Oggiaro, al gallaratese.

I processi, le detenzioni, le condanne,
scrivi, ti hanno divertito,
la vita t'hanno allungato, invece di abbreviarla.

Ti riconosco, Sergio, tu che pensavi
che senza autoironia non c'è autocritica,
che senza vis comica non c'è vita,
che il materialismo e la dialettica
sono certo scientifici ma anche belli.

Con Brecht dicevi lodiamo il dubbio,
dicevi: che è ancora vivo non dica: mai!
Quel che è sicuro non è sicuro.
Com'è, così non resterà.

Oggi penso a te, Sergio, all'amico,
al compagno con l'eterna Gauloise,
alla tua memoria che è parte della mia,
con te penso che una risata li seppellirà.

Milano, 31 Gennaio 1994

Gian Luigi Nespoli

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COMUNICATO

Compagni e Compagne, nella notte del 22 gennaio è morto in Francia il compagno Sergio Spazzali, nome di battaglia Pino, fondatore e dirigente della Cellula Comunista per la costituzione del Partito Comunista Combattente.

I giornali di regime hanno svilito il suo ruolo di militante e dirigente comunista, descrivendolo come l'avvocato delle B.R., oggi povero esule in Francia che si rabatta tra gli stenti, e prepara il suo rientro in Italia ormai stufo di tale situazione.

La militanza rivoluzionaria di Pino smentisce radicalmente questa versione edulcorata di regime, e ci rivela il suo impegno e dedizione alla causa dell'emancipazione proletaria e della Rivoluzione Comunista. A partire dagli anni sessanta, Pino rifiuta gli agi e i privilegi della casta avvocatizia, è sempre presente nelle lotte del movimento operaio e studentesco, presente nei gruppi Marxisti-Leninisti del periodo, presente nelle delegazioni in Cina e in Corea del Nord, fondatore del centro Franz Fanon. Pino è animatore di Soccorso Rosso prima e del comitato per la difesa dei detenuti politici in Europa, a fianco dei compagni Greci e Spagnoli e nel Sud del mondo con l'M.P.L.A. dell'Angola, è parte attiva nel percorso del movimento rivoluzionario degli anni settanta, avvocato degli operai, degli inquilini, avvocato militante al servizio delle Avanguardie Comuniste Combattenti. Sino alla scelta della clandestinità in Francia, dove rifiuta ogni tipo di patteggiamento con lo Stato Francese e si dedica totalmente a ricostruire una presenza Comunista combattente in Italia e in Europa.

In questo contesto nell'85 è tra i fondatori della Cellula per la costituzione del Partito Comunista Combattente e nell'89 della rivista per il Partito, delle quali è militante, contribuendo attivamente al loro sviluppo fino alla sua morte.

La stessa scelta del rientro in Italia nulla ha a che vedere con presunte nostalgie della sua terra natia, ma si tratta di una scelta politica collettiva.

Per i Comunisti Rivoluzionari e i proletari coscienti la morte di Pino è una di quelle morti che pesano come una montagna, in noi, suoi compagni di lotta ed amici, la sua morte lascia un vuoto umano e politico incolmabile.

Ma non gioiscano le classi dominanti, sapremo far vivere Pino seguendo il suo esempio e continuando con determinazione la lotta per la costituzione del P.C.C. e per l'affermazione della Rivoluzione Comunista.

Onore al Compagno Pino
Pino vive nella lotta per il Comunismo

Cellula Comunista per la costituzione del Partito Comunista Combattente

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