Senza Censura n. 2/2000

[ ] Ad un anno dalla guerra nei Balcani


Alcune riflessioni su 'sicurezza interna' ed esecutivizzazione

E' ormai passato oltre un anno dalla guerra della NATO nei Balcani ed è arrivato il momento di fare un bilancio più chiaro sulle ripercussioni che essa ha avuto anche nella gestione della politica della sicurezza interna in Italia.
Di fronte ai nuovi compiti che l'Italia è chiamata a svolgere nei conflitti di espansione del capitale e nella cogestione delle crisi internazionali è, a nostro parere, evidente che vi è una necessità di ridefinizione del ruolo dello stato e dei suoi apparati repressivi. La portaerei del mediterraneo non può permettersi di vivere nessun momento di difficoltà interna.
Questo processo non è certamente iniziato con la guerra in Jugoslavia, ma parte da lontano nelle trasformazioni che hanno investito le istituzioni dal 1992 in poi. Vi è una chiara tendenza infatti alla centralizzazione dei poteri nell'esecutivo, alla rinnovata attenzione verso il controllo del territorio con forme tipo il poliziotto di quartiere e con la crescita esponenziale delle assunzioni nei corpi di polizia, unico settore pubblico dove non assistiamo a tagli del personale. Inoltre nell'ultimo periodo abbiamo assistito alla trasformazione dei carabinieri in quarta forza armata, con un aumento dei poteri dell'Arma stessa e con un crescente ruolo del Prefetto, diretta emanazione del Ministero dell'Interno nelle città, a testimoniare come, mentre si parla di potere locale, vi sia un accentuazione dei poteri di controllo e condizionamento dello stato. Tutto questo inserito in allarmi criminalità ciclici, accostati alla amplificata richiesta dei cittadini di sicurezza e "normalità".

L'entrata dell'Italia in guerra nell'aprile del '99, con il fondamentale ruolo che le è stato affidato, ha evidenziato come viene spiegata sul campo questa trasformazione. Infatti lo stato è chiamato a svolgere una funzione di prevenzione nel momento in cui con la guerra si manifestano più apertamente le contraddizioni intercapitalistiche e tra lavoro e capitale e si creano di fatto condizioni di intervento politico più avanzate per le avanguardie della classe. Ed in effetti, seppur sia stato di livello non adeguato all'attacco, il movimento contro la guerra ha prodotto sia un avanzamento sia una certa ricomposizione, sebbene parziale, nelle diverse aree politiche del movimento di classe.

Due sono i primi momenti in cui, durante la guerra, vi è un'accelerazione dell'attacco repressivo: la devastazione del centro sociale Askatasuna a Torino il primo di maggio a seguito degli incidenti in piazza durante il corteo confederale; l'aggressione ai manifestanti di Firenze durante lo sciopero generale del 13 maggio con tutta la coda di denunce(46) e di criminalizzazione delle realtà che avevano dato vita alla giornata. Nel caso fiorentino l'accusa, subito ripresa dai giornali, si è spinta ad ipotizzare addirittura il reato di associazione per avere preorganizzato gli scontri e la successiva invasione simbolica della sede dei DS.
Entrambi questi avvenimenti rappresentano la sproporzione, in chiave appunto tutta preventiva, dell'intervento poliziesco, ben guidato a livello istituzionale e ben supportato dai principali media.

Ed entrambi questi avvenimenti non possono essere considerati solamente fisiologici ma evidenziano il cambio di impostazione imposto dalla guerra imperialista, che aveva portato lo stesso Ministero dell'Interno, con la circolare Jervolino, a vietare ed evitare le manifestazioni di dissenso sotto i consolati.
Nei mesi successivi abbiamo poi assistito ad una raffica di inchieste che ha coinvolto centinaia e centinaia di militanti, con perquisizioni, arresti e denunce che variano da associazione sovversiva, per reati non ancora commessi, fino ad arrivare alle risibili accuse di stampa clandestina per alcuni organi di controinformazione locali(caso del collettivo Antinebbia nel Valdarno). Le inchieste hanno investito tutta l'Italia, da Catania a Foggia a Pordenone, nell'intento di dimostrare all'opinione pubblica l'attività degli inquirenti e ancor di più per rimettere mano ed aggiornare tutti gli schedari. Anche in questi casi la funzione principalmente preventiva delle operazioni è chiara laddove bisognava scoraggiare chiunque, secondo loro, coltivasse qualche proposito particolare e comunque sostenesse la necessità di contestare la legittimità di questo sistema. Anche la gestione della piazza ha visto dei cambiamenti sostanziali: ogni corteo e mobilitazione vengono preceduti da campagne di stampa tese a amplificare la pericolosità dell'appuntamento, dove si possono "annidare pericolosi estremisti", e la possibilità che essi sfocino in incidenti. Queste campagne vogliono marginalizzare la protesta e spianare la strada alla militarizzazione della piazza, cosa che puntualmente accade.

Questi fatti si sono svolti, e continuano a svolgersi, con una continuità tale da non poter né essere sottovalutata né essere considerata solamente normale.
Certo può sicuramente considerarsi normale se per normalità si intende la risposta della borghesia alla crescita, reale e potenziale, del movimento di classe, come in questa fase in cui essa agisce preventivamente sulla base della considerazione delle contraddizioni che le attuali politiche imperialiste generano. Ma ciò non toglie che va compresa e quindi combattuta in modo che essa non raggiunga i propri obiettivi, che devono essere valutati per far si che non si compiano, che i propositi di divisione della classe che esso persegue non arrivino a conclusione. E l'obiettivo principale della repressione sono tutte quelle realtà che si pongono nella quotidianità lo strumento del conflitto, sia in termini di iniziativa sia con il contributo al suo sviluppo, come metodo per l'ottenimento di una risposta agli attacchi che la borghesia ha condotto e sta conducendo verso i diritti dei lavoratori e della classe e per una crescita generale del dibattito, siano essi lavoratori, disoccupati, centri sociali, riviste ed organizzazioni politiche.
Tutto quello che è successo, e sta succedendo anche in questi ultimi giorni, è stato del resto ampiamente preventivato in sede politica e giudiziaria, dove si è arrivati( nelle numerose Relazioni alla Commissione Parlamentare su stragi e terrorismo di questo ultimo anno) a definire diversi livelli di pericolosità, arrivando ad ipotizzare il reato di concorso esterno in associazione sovversiva per andare a colpire tutte quelle realtà, politiche, sindacali e sociali, che, a dire loro, potrebbero rappresentare il famoso "stagno dove nuotano i pesci"( citazione per altro di Mao Tse Tung), possibile luogo di riferimento e reclutamento per le formazioni armate. E così le inchieste proseguono e si moltiplicano a tutto campo: perquisizioni a militanti politici, sindacali, a delegati della CGIL in Emilia Romagna, studenti, esponenti di Rifondazione, dei centri sociali; indagini estese, anche con diversa intensità, a tutta l'area della sinistra antagonista e rivoluzionaria.
E ancora la criminalizzazione crescente negli organi di propaganda borghesi, cioè quasi tutti, di ogni esperienza che produce conflitto e dissenso; criminalizzazione che passa da campagne orchestrate a dovere tra apparato giuridico-poliziesco e stampa, come nel caso del Cpa fi-sud accusato di tessere pericolose trame tra Belfast, Bilbao e Firenze, per avere organizzato iniziative di solidarietà con il popolo Basco o dell'Irlanda del nord, con informative Digos date in pasto a giornalisti/e compiacenti. Come le continue cariche in piazza contro lavoratori in lotta, disoccupati o studenti( Firenze 14 dicembre, 15 persone all'ospedale).

Il conflitto ed il dissenso vanno combattuti come fatto in se, perché potenziali eversori dell'ordine costituito e quindi bisogna fare terra bruciata delle esperienze di lotta, del loro patrimonio e della prospettiva di trasformare questa società. Finanche il dubbio sull'attività degli investigatori nel condurre le indagini può essere indizio di tradimento dello stato e delle sue istituzioni con una pericolosa cappa che coinvolge tutti.
Uno dei dati più importanti, che testimonia una parziale riuscita della strategia statuale, è che tutto ciò è avvenuto in una situazione di silenzio ed immobilismo delle tante realtà di movimento, che solo nell'ultimo periodo sembra avvertire una inversione di tendenza. Infatti nascono vari gruppi e comitati contro la repressione in tutta Italia anche se tuttora minoritari e con molte difficoltà di ricomposizione a livello nazionale. Ma certo è importante che questo avvenga. Proprio uno degli obiettivi del giro di vite repressivo è infatti la frammentazione e la divisione. Le tante prese di posizione sono state per lo più improntate all'opportunismo, compreso quello operato da alcune situazioni che usano la delazione come strumento di battaglia politica. Per il resto un assordante silenzio, che diventa in questo contesto, una buona arma per il padrone.
Così, mentre loro stanno a definire uno stato forte, efficiente, con un esercito professionale pronto ad intervenire in ogni parte del mondo, come all'interno dei confini nazionali in funzione di emergenza, una polizia pronta a garantire prevenzione e repressione, alla ricerca del completo controllo del territorio, rischiamo di non comprendere che per la buona riuscita dell'operazione hanno la necessità di fare pulizia di quello che potrebbe impedirlo, o perlomeno infastidirlo.
Dobbiamo forse cominciare a spostare il problema sull'azione che sta portando avanti l'altra parte e la complessità del suo apparato repressivo, che non è solo la polizia, con cui vorrebbero annientare l'iniziativa politica non compatibile in questo paese per il suo ruolo internazionale.
E questo dovrebbe tradursi in una maggiore solidarietà verso i soggetti, collettivi e singoli, colpiti dalla repressione con prese di posizione chiare, senza paura di compromettersi con chissà che.

Vanno costruite iniziative di dibattito e di informazione per rendere visibile l'attacco attuale ed i suoi obiettivi. Così come è necessaria una circolazione di informazioni più generale che serva a rompere i margini entro cui vorrebbero chiuderci, nella consapevolezza che questa spirale non investe solo i militanti politici ma tutta la classe e che potrebbe alla lunga anche capovolgersi.

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