Senza Censura n. 4/2001 [ ] Controllo: tecnologie e ideologie "Non c'è migliore polizia del controllo sociale" (Saint Just) Internazionalizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro, concentrazione della proprietà e decentramento produttivo ormai non sono più solo una "tendenza": fanno parte di un processo di ristrutturazione del modo di produzione capitalistico in atto da una ventina d'anni. Un processo che trova un suo presupposto nell'informatizzazione della produzione che, come tutti i grandi mutamenti del modo di produrre, é partito dalla grande fabbrica per estendersi agli altri settori (finanza, terziario, commercio, trasporti ...). Il decentramento produttivo si fonda sulla scomposizione del ciclo lavorativo in una pluralità di segmenti sparsi sul territorio che stanno alle unità produttive madri nello stesso modo in cui stavano, nella forma precedente di organizzazione del processo produttivo, i singoli reparti. Questo, insieme ad una forte precarizzazione del rapporto di lavoro, ha portato ad uno sconvolgimento degli assetti territoriali metropolitani creando i presupposti per il passaggio, quale luogo "ideale" della ricomposizione politica del proletariato, dalla grande fabbrica al territorio e, come dicevano alcuni compagni più di venti anni fa, è la condizione che dà un contenuto esplicito alla categoria di proletariato metropolitano. Ora, é esigenza-conseguenza per il capitale adeguare il controllo alle mutazioni del sistema produttivo. Perciò, grazie anche a nuove tecnologie che permettono di immagazzinare quantità enormi di informazioni, assistiamo ad una estensione del controllo sul territorio e sui soggetti sempre più capillare e asfissiante. Oggetti divenuti ormai di uso quotidiano per milioni di proletari (telefonini, tessere magnetiche per fare la spesa, per telefonare, per prelevare i pochi soldi rimasti nel conto corrente...) sono strumenti formidabili di controllo e chiunque, senza arrivare a teorizzare la città panottica, si può rendere conto che nel territorio urbano viene spiato centinaia di volte al giorno da telecamere istallate un po' ovunque. Questa é una realtà con cui i proletari, i compagni e i rivoluzionari devono fare i conti. Ma non crediamo ad un "grande fratello" che si insinua fin dentro le case di tutti controllando il comportamento di ogni singolo proletario: il controllo (nel territorio come nell'impresa) é quell'attività volta a ottenere certi comportamenti e, in questo senso, si differenzia dal comando che verifica la conformità dei comportamenti a delle norme prefissate. Perciò, anche nel territorio, non é una funzione fine a sé stessa o tesa conoscere il comportamento dei singoli proletari per poterli eventualmente sanzionare, ma una vera e propria funzione di governo della conflittualità proletaria e appare abbastanza improbabile che si giunga a controllare la soggettività di ogni singolo proletario. Riteniamo invece che le logiche che informano le politiche di controllo sulle molteplici figure che compongono il "proletariato metropolitano" (figure che non provengono più dalla campagna: sono nate nelle metropoli anche quando si tratta di stranieri i quali, appunto, per lo più provengono da situazioni metropolitane e quindi hanno interiorizzato nella struttura psichica una quantità maggiore di conoscenza e rapporti sociali), siano delle logiche che tendono a classificare/selezionare gli elementi più importanti ed attivi controllandone le relazioni che li legano al territorio e sostituendo così, dove possibile, alla logica della repressione quella della "prevenzione" delegando al livello di base dei partiti, sindacati, centri sociali "alternativi"... l'onere di indicare al braccio secolare della legge le variabili impazzite da "immolare sul rogo". Parlando di prevenzione ne parliamo come funzione. Ciò non significa affatto una diminuzione della repressione, anzi. La politica del "sicuratismo", della tolleranza zero made in USA, sta prendendo piede sempre più anche nella vecchia Europa: l'aumento del controllo sul territorio non si accompagna ad una diminuzione del tasso di carcerazione che, invece, é in crescita in tutta Europa (con in testa la Gran Bretagna, sempre la prima a recepire le politiche statunitensi, e con Finlandia e Austria quali unici dati in controtendenza), anche se con tempi e modi differenti, adatti alle specifiche esigenze dei singoli Stati. Infatti i tagli al welfare state, ai salari, alla sicurezza sul lavoro ecc. - l'altra faccia delle politiche delle incarcerazioni di massa, del lavoro obbligatorio ecc. - non dipendono semplicemente dalla cattiva volontà dei "governanti del mondo", ma sono misure imposte per rallentare la crisi mondiale che attanaglia il modo di produzione capitalista. Con il procede della crisi la lotta del capitale per mantenere i propri profitti si fa sempre più feroce. Conseguenza di ciò é l'elaborazione di nuove politiche e gerarchie per la gestione della questione sociale nella metropoli: sindaci e strutture municipali pienamente assunte nei "comitati dell'ordine pubblico", uniformazione delle operazioni di polizia a quelle militari vere e proprie... Lo stesso linguaggio comune subisce queste nuove forme di controllo: delle operazioni repressive interne si parla come di "pattugliamento del territorio" con volanti presenti ventiquattrore su ventiquattro (fino a tutti gli anni '70 le volanti sostavano nei cortili delle questure e si muovevano su chiamata), di operazioni di "bonifica del territorio" (come a Napoli, dove in più di un caso, per sgomberare alcune case occupate, con la scusa delle "infiltrazioni" della camorra, sono state attuate vere e proprie occupazioni militari di interi quartieri), di "sicurezza costiera" (i bombardamenti e speronamenti di imbarcazione di contrabbandieri o clandestini) ... Per chi si rapporta in termini di lotta di classe, per i rivoluzionari, é sempre stato chiaro che di guerra si tratta; ma certamente oggi, anche in assenza di una grossa conflittualità proletaria, ciò si evidenzia in maniera molto forte. Ma torniamo al concetto di funzione preventiva della repressione. In Italia, ed un po' in tutta Europa, stiamo assistendo a ripetute campagne di criminalizzazione dell'immigrazione. Queste campagne portano in sé un duplice obiettivo: da un lato sono funzionali al mercato del lavoro (con l'evidente finalità di produrre una massa di lavoratori sottopagata, super sfruttata e ricattabile - se ancora esistono, anche usando i parametri borghesi, operai non sottopagati); ma c'è un altro aspetto: se analizziamo queste campagne, oltre ad una criminalizzazione tout court dell'immigrazione, ce n'è una ulteriore che riguarda gli immigrati provenienti dai cosiddetti paesi che sostengono il "terrorismo" o dai paesi dove sono presenti organizzazioni "terroristiche". Un paradigma estensibile a varie nazionalità: da tempo gli apparati di intelligence USA hanno individuato e sottolineato il passaggio da una fase in cui esistevano gruppi ben organizzati - che godevano dell'appoggio finanziario e logistico da parte di alcuni paesi - a una fase di costituzione di reti organizzative dai contorni più indefiniti e con diverse forme di finanziamento. Questo concetto di "organizzazione a rete" ha giustificato e stimolato una serie di campagne di criminalizzazione, di aperture di inchieste giudiziarie contro il terrorismo di matrice religiosa-islamica e di arresti indiscriminati di immigrati, provenienti per lo più da paesi mediorientali e magrebini, in mezza Europa. Inchieste di cui, in realtà, é difficile definire i contorni, visto che l'unica fonte di notizie sono solo i mass-media, i quali volutamente - ma a volte per vera e propria ignoranza dell'argomento da parte del cronista - più che informare disinformano. Però un dato appare evidente: immigrati arrestati per detenzione di modiche quantità di sostanze stupefacenti o perché trovati in possesso di documenti falsi si trovano a subire lunghe carcerazioni in quanto coinvolti in mega inchieste internazionali (il tutto sempre senza uno straccio di prova che giustifichi il reato associativo). Si è arrivati così all'assurdo teorema di un giudice bolognese che in seguito all'arresto di presunti piccoli spacciatori italiani e magrebini, visto che gli stessi vivevano in condizioni indigenti ( casolari abbandonati e semidiroccati ecc.), ne ha "presunto" che essi utilizzavano i loro proventi illeciti per finanziare organizzazioni "terroriste". Non sappiamo se costoro fossero per scelta nuovi francescani, adamiti o dolciniani oppure se, come la stragrande maggioranza degli immigrati di casa nostra, vivessero una condizione di oggettiva povertà, ma sappiamo per certo che é una scelta intascare uno stipendio plurimilionario per arrestare, espellere ed infamare. Con l'allarme attentati anti-USA e anti-NATO e la spettacolare chiusura dell'ambasciata statunitense di Roma, questa duplice campagna di criminalizzazione riprende vigore (agitando lo spauracchio del nemico pubblico n° 1: l'onnipresente Osama Bin Laden). Vengono invocate e attuate ulteriori misure repressive nei confronti dell'immigrazione clandestina in quanto brodo di cultura del "terrorismo islamico". A questo si affianca una delirante campagna propagandistica contro la religione musulmana portata avanti da clero, mass-media, movimenti e partitini vari in un guazzabuglio funzionale alla divisione del proletariato. Una trappola ideologica quella della "matrice religiosa" (della fittizia e menzognera contrapposizione fra la democrazia cristiano-occidentale e l'oscurantismo autocratico musulmano-orientale) in cui spesso cadono anche proletari e compagni. Il fatto stesso che lo sfruttamento della borghesia imperialista nelle aree mediorientali e nordafricane da cui provengono questi immigrati si eserciti anche attraverso l'imposizione di modelli culturali e di consumo fa sì che la loro resistenza assuma uno specifico connotato di anti-occedentalismo, oltre che di antimperialismo. Lo spazio spesso assunto dalla religione e dalla "cultura islamica" come ideologia di questa resistenza trova qui e nella debolezza di una prospettiva rivoluzionaria comunista su scala mondiale la sua ragion d'essere, ma non deve assolutamente indurre a far confusione fra espressione ideologico-culturale e natura di classe dello scontro e del movimento di lotta. Cogliere quella che é la reale dimensione dello scontro nell'epoca della globalizzazione é, non ci stancheremo mai di ripeterlo, fondamentale per comprendere l'attuale composizione di classe/possibilità di riapertura di percorsi di lotta rivoluzionaria nei territori in cui viviamo. Sostituire il concetto di proletario senza patria con quello di cittadino (cittadino della metropoli imperialista: partecipe e beneficiario dello sfruttamento del tricontinente), sottovalutare se non addirittura leggere come un ritorno all'oscurantismo la valenza che ha avuto la cacciata dei sionisti e la liberazione dei prigionieri dal famigerato carcere di Khiam nel Libano del sud (area strategica per l'imperialismo), significa non comprendere e/o farsi partecipe di una delle funzioni principali del controllo sociale: mantenere una divisione nazionale ed imperialista del proletariato. "L'importanza della caduta di Khiam dev'essere compresa al di là della sola liberazione del territorio occupato. Perché essa può essere misurata alla luce della battaglia combattuta a livello mondiale sul terreno della detenzione politica. Ciò che é avvenuto lì vale come se il movimento antimperialista nel 1977 avesse preso d'assalto il carcere di Stammeheim e liberato i membri della RAF, come se i proletari dei ghetti cattolici di Belfast avessero fatto chiudere le carceri di Maze e Long Kech durante il grande sciopero della fame del 1981. E Khiam non é dall'altra parte del pianeta, é qui a qualche centinaio di chilometri dalla metropoli europea, dal carcere di Trani, dal penitenziario di Siviglia e dalla centrale di Lannemezan" (J.M. Rouillan, prigioniero di Action Directe, 19.06.2000) Scheda: Negli ultimi anni la magistratura di diverse città italiane ha dato corso (su evidente suggerimento dei servizi di intelligence e di sicurezza nazionali ed esteri) a numerosi e spesso ripetuti arresti di stranieri accusati di essere "fiancheggiatori del terrorismo islamico". Le operazioni che riportiamo sembrano essere le più eclatanti, stando almeno alle scarse notizie riferite dai mass-media. - 1995: i Ros arrestano a Milano e a Napoli numerosi "fiancheggiatori del GIA". L'inchiesta naufraga e gli arrestati vengono rimessi in libertà. - 1996: nel novembre operazione "shabka" (rete) a Torino. 22 persone vengono arrestate per "associazione a delinquere costituente articolazione in più regioni del territorio nazionale del GIA, in diretto collegamento operativo con analoghi gruppi operanti in altri Stati europei e in Algeria". Gli arrestati tornano in libertà dopo la decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. - 1998: nel giugno la magistratura di Bologna, sulla base di presunte intercettazioni, denuncia la possibilità di attentati "islamici" ai mondiali di calcio in Francia; nello stesso anno a Torino vengono arrestati tre egiziani, trovati in possesso di armi e accusati di essere legati al gruppo di Bin Laden. - 1999: a Bologna vengono arrestate 23 persone (12 italiane) per traffico di stupefacenti. La magistratura inquirente sostiene che i proventi dell'attività servivano a finanziare la rete dell'estremismo islamico in Europa. - 2000: a ottobre i Ros arrestano a Napoli 11 persone con l'accusa di appartenere a Hidjra Wal Takfir (esilio e anatema) organizzazione islamica sospettata di trafficare armi e documenti falsi; poco tempo dopo la procura di Bologna richiede l'arresto di altre 11 persone sospettate di fiancheggiare il terrorismo islamico. [ ] Close |