Senza Censura n. 6/2001

[ ] Globalizzazione e controrivoluzione


Alcune considerazioni su Genova e dintorni


Prima di entrare nel merito dell'anti G8 vorremmo premettere che quando parliamo di movimento antiglobalizzazione ci riferiamo non tanto ai suoi pseudo portavoce o "teste politiche" (che, nonostante lo si neghi, sono molte - alla faccia della tanto sbandierata orizzontalità del "movimento"), ma alla molteplicità dei soggetti che esprimono il loro dissenso alle attuali politiche di globalizzazione, individuando questa come l'elemento positivo di quanto va sviluppandosi in questo senso. Per far chiarezza: usiamo il termine globalizzazione perché di uso comune e perché ha assunto il significato/sintesi dell'insieme delle politiche che la borghesia porta avanti nella fase attuale a livello internazionale (nel centro come nella periferia, nel sud come nel nord) in mancanza di un suo antagonista organizzato che, nelle fasi precedenti - con tutti i limiti e le contraddizioni - era rappresentato dal blocco "socialista".
Non approfondiamo questi aspetti per non appesantire ulteriormente le valutazioni su Genova.

Quanto successo a Genova non può certo essere definito imprevedibile, a meno di voler escludere a tutti i costi la considerazione della necessità dello stato (nella sua articolazione nazionale o sovranazionale) di reprimere preventivamente qualsiasi istanza di cambiamento, sebbene caotica e priva di una sua autonomia politico-organizzativa. Una repressione che certo assume caratteristiche e intensità diverse a seconda della strategia che la borghesia imperialista sceglie nelle varie fasi di sviluppo delle contraddizioni capitalistiche.
Affrontiamo subito il panorama politico italiano che è andato a delinearsi nella fase preparatoria del vertice del G8 di Genova sia da parte del "movimento" che da parte della compagine governativa.
E' infatti innegabile che in Italia l'ascesa al governo della "destra" corrisponde alla necessità storica del capitale di operare una svolta autoritaria dello stato in funzione della necessità di affrontare uno scontro frontale con le giuste rivendicazioni proletarie miranti alla fine delle disuguaglianze, interne e internazionali, e in contrapposizione alla necessità del capitale di inasprirle.
Ma l'ascesa della destra in Italia e la politica autoritaria/repressiva di cui si fa portatrice è in continuità con la politica portata avanti in questi anni dal governo di centrosinistra che, forte di un certo consenso sociale e attraverso le sue articolazioni sindacali e partitiche, ha svolto un ruolo centrale nella ridefinizione dei rapporti di forza tra classe e capitale (e a favore di quest'ultimo).
E' infatti innegabile che la politica repressiva, sia a livello legislativo che sulla piazza, non è iniziata con Genova ma trova il suo legittimo "proprietario" nel governo di centrosinistra. Durante l'attacco alla Ex-Jugoslavia è stato proprio il centrosinistra a reprimere duramente il movimento contro la guerra sia nelle piazze che nella propaganda (etichettandolo come "infiltrato dai terroristi", terreno di sviluppo di nuovi guerriglieri) rilegittimando in pieno quella strategia repressiva e controrivoluzionaria che trova la sua sintesi in una legislazione d'emergenza oramai parte fondante la legislazione repressiva italiana.
Ma il governo di centrosinistra è riuscito anche a fare di più. La legislazione antiterrorismo è stata ulteriormente inasprita: con l'aumento della carcerazione preventiva a 24 mesi per reati legati a fatti di terrorismo, con il "Pacchetto sicurezza" (che ha introdotto anche la possibilità per la polizia giudiziaria di svolgere indagini senza consenso della magistratura), con l'uso dell'esercito in funzioni di ordine pubblico interno ...
Una strategia repressiva che non si è avvalsa solo della legislazione e dei tradizionali apparati repressivi, ma che ha trovato proprio in aree del cosiddetto "movimento" ampia "collaborazione" particolarmente contro coloro che in questi anni hanno continuato a rifiutare il compromesso istituzionale nella scelta del livello e degli strumenti dello scontro. Sono state proprio aree interne al movimento antiglobalizzazione (molte delle quali, per altro, si erano già distinte per il loro appoggio all'aggressione contro la Ex Jugoslavia) a creare le condizioni per una "distinzione tra buoni e cattivi" - distinzione che sarà uno dei punti chiave dell'attacco repressivo del governo italiano (e non solo) a tutto il movimento.
Senza partire da questo non riusciremmo a comprendere cosa è cambiato nel livello repressivo tra il governo di centrosinistra e il nuovo governo di destra.
Già a Napoli questo argomento era stato usato per legittimare l'operato della polizia contro i manifestanti o meglio, a loro dire, contro una parte di loro: quelli che avevano provato sulla propria pelle cosa dovevano aspettarsi coloro che avevano scelto di non contrattare la solita spettacolarizzazione del conflitto (fatta di divise e falsi scontri) e nello stesso tempo non avevano compreso quanto si fosse alzato il livello di necessità di violenza dello stato di fronte a chi si definiva incompatibile alla mediazione.
Ma con il governo di centrodestra questo è saltato: tutti i manifestanti, in un modo o nell'altro, sono cattivi o complici; sono saltati i livelli di mediazione, peraltro rincorsi fino all'ultimo da autolegittimatisi rappresentanti del "movimento contro la globalizzazione".
Sono quindi saltate anche quelle "rappresentazioni teatrali" che fino a Napoli avevano contraddistinto l'agire di una gran parte di coloro che hanno cercato in questi anni (da Amsterdam in poi) di farsi portavoce e testa politica del movimento contro la globalizzazione.
In questi mesi i vari portavoce avevano fatto la gara ad occupare i media recitando proclami più o meno radicali e del tutto strumentali ad "ingraziarsi" i settori di cui si proponevano come portavoce. Dai vari Agnoletto (che promuovevano l'azione non violenta e colorata con cui avrebbero forzato la zona rossa) ai vari "duri" - tute bianche e altri - (che avrebbero forzato la zona rossa in maniera più o meno militante) e che per mesi si sono rincorsi unicamente per dimostrare chi era più forte "a dirla più grossa". E così sono iniziate le dichiarazioni di "guerra" al G8. Una guerra che però, a parte le parole, mancava di un soggetto in campo: oltre l'esercito dello stato non c'era altro. In realtà, pensavano di giocare lo stesso giochetto di sempre, fatto di trattative e accordi sul livello di scontro in piazza. Sia i pacifisti che i cosiddetti disobbedienti o i duri hanno fatto "il viottolo" negli uffici della repressione incontrando e trattando con coloro che rappresentano i responsabili della strategia repressiva in Italia, gli Andreassi e i De Gennaro, gli Scajola e altri.
E così conferenze stampa e dibattiti televisivi, non sono stati sufficienti a riproporre quanto queste losche figure del movimento antiglobalizzazione erano riusciti a fare nei mesi precedenti con il governo di centrosinistra. E' innegabile che chi è riuscito a colpire, secondo la sua scelta, discutibile o meno, è stato chi tanti proclami non aveva fatto ed è stato poi additato come responsabile di aver scatenato la repressione poliziesca. Ma su questo torneremo in seguito.
Il problema maggiore si è presentato per coloro che hanno scelto di non collocarsi all'interno di questo panorama. Così la trattativa o meno con le istituzioni, l'adesione o meno al genoa social forum o alle sue strutture locali sono diventate il primo tassello di una strategia mirante a distinguere i buoni e i cattivi, coloro che avevano il diritto di manifestare e coloro che dovevano essere emarginati. La condizione della "dichiarazione di bontà" diventava discriminante anche per i settori "trattativisti" che, cadendo prontamente nel gioco, hanno preso opportunamente le distanze da questo o quest'altro.
Nello stesso tempo il concentrarsi della discussione sulle "scadenze" e la mancanza, che abbiamo da tempo, di una reale capacità di tradurre in una continuità politica di lungo periodo le nostre valutazioni su queste scadenze ha attorcigliato il dibattito attorno al problema che veniva posto dagli altri: la piazza e come andarci. Questo, sicuramente, non è un problema da sottovalutare in occasioni che vedono da una parte l'esercito dello stato e dall'altra l'opportunismo e la "repressione interna", ma che ha dimostrato tutti i suoi limiti nel collocare l'iniziativa di piazza e il livello di scontro all'interno di una chiara strategia politica di attacco alle attuali politiche del capitale.
I percorsi di aggregazione tentati e alcuni appelli alla discussione non hanno trovato, se non in alcuni casi, un loro sviluppo, dimostrando tutta la nostra inadeguatezza nell'attuale fase di scontro sia nel lavoro quotidiano che all'interno delle scadenze dettate da altri. I percorsi di aggregazione internazionali con settori anticapitalisti e rivoluzionari che avevano contraddistinto dalla metà degli anno 80 il lavoro di molte situazioni della sinistra rivoluzionaria e anticapitalista italiana e europea sono stati totalmente sottovalutati e, in realtà, si è corsi dietro al dibattito politico e organizzativo che i settori opportunisti erano in grado di proporre (dibattito preparato nelle stanze del potere o all'interno delle compatibilità del sistema).
All'interno del dibattito di preparazione a Genova non siamo riusciti a spostare di un passo il dibattito politico che si svolgeva e che, peraltro, non ha superato le semplici richieste di remissione del debito estero. Non siamo riusciti a far prevalere quelle lotte (dalla Palestina all'Argentina, dai Paesi Baschi alla Grecia, alla Korea) che realmente si pongono come elemento dirompente delle attuali politiche del capitale.
Non siamo riusciti a chiarire un passaggio fondamentale in questa fase di caos ideologico e politico: chi sono questi organismi, chi è il G8.
A fronte di un richiamo alla mancanza di democraticità del G8 (o meglio G7+1) non siamo riusciti a porre la questione che se è antidemocratico il G7 lo sono anche i governi dei paesi che lo compongono (indipendentemente dalla loro colorazione politica) in quanto funzionali all'interesse del capitale e non dei proletari di questi paesi; che, a loro volta, questi stessi governi determinano il continuo peggioramento delle condizioni nella periferia del pianeta: non siamo riusciti a riaffermare la incompatibilità e l'autonomia da tutte le sovrastrutture del capitale siano esse nazionali o sovranazionali.
La mancanza di una capacità di determinare una autonomia dalle istituzioni è sicuramente un aspetto riconducibile alla nostra debolezza, ma è nello stesso tempo uno dei punti cardine della strategia controrivoluzionaria tesa a non far uscire dalla compatibilità la tensione che le varie anime del movimento antiglobalizzazione esprimono.
I vari Agnoletto servono proprio a questo. Nella realtà la "globalizzazione governata", il richiamo alla democratizzazione dei vari organi sovranazionali (FMI-Bm, G8, WTO) rientra proprio nella strategia, da molti contrastata, della famosa "Terza Via" delineata da alcuni governi di centrosinistra del G8 prima dei cambiamenti avvenuti in Usa e in Italia.
Con questo non vogliamo affermare che non sia importante il problema Aids per l'Africa o lo strangolamento del debito per i paesi del cosiddetto Terzo mondo o una regolamentazione unitaria dei diritti dei lavoratori delle multinazionali. Ma come possiamo scindere questo dalle contraddizioni che si sviluppano in Italia o in Europa, all'interno di quei paesi a capitalismo maturo che proprio in funzione della competizione globale hanno portato avanti un lento e inesorabile abbassamento delle condizioni di vita, abbassato i salari, ridotto le pensioni, precarizzato e flessibilizzato il lavoro, privatizzato i servizi, aziendalizzato l'istruzione e ricreato le condizioni per una riproduzione classista della classe dirigente. Come possiamo scinderli dai processi di aggregazione Europea e della sua costituzione come polo imperialista. Molti settori del movimento, proprio nel momento in cui si parla di libera circolazione degli immigrati, sono addirittura arrivati, per pochezza di analisi o per opportunismo, a fornire una visione apologetica del trattato di Schengen considerandolo come possibile strumento di libera circolazione "dei corpi" mentre, in realtà, rappresenta uno degli strumenti fondanti della "fortezza Europa".
Queste considerazioni non sono secondarie: è una caratteristica della sinistra istituzionale e di molti settori opportunisti del movimento, che si nascondono dietro una falsa facciata di incompatibilità, di rivolgere la loro attenzione a decine di migliaia di chilometri di distanza spostando così altrove l'attenzione allo scontro e al conflitto di classe, dove peraltro molti lo praticano realmente. Le stesse contraddizioni che si sviluppano nelle periferie del mondo si sviluppano nelle periferie della metropoli e per questo, prima di tutto, dobbiamo combattere qui il nostro nemico storico.
L'obiettivo della "riforma" della carta europea, la richiesta di intervento dell'ONU e una ripresa della sua funzione "moderatrice" (richiesta superata nella pratica dall'attuale mancanza di un antagonista anticapitalista a livello internazionale e che, peraltro, non ci appartiene in quanto nessuna moderazione è possibile ora più che in passato), sono le altre facce di una chiara volontà di compatibilità delle proposte di questo settore politico di autoproclamati rappresentanti del movimento antiglobalizzazione. Ma non c'è da stupirsi: la "gestione politica" di questo movimento è stata finora appannaggio di coloro che in questi anni hanno fatto più volte l'occhiolino al governo di centrosinistra o, addirittura, sono una sua diramazione.
Altra cosa, a nostro avviso, è invece la positività (indipendentemente dal fatto che in questa fase si catalizzi attorno a queste rivendicazioni e riferimenti politici) di coloro che manifestano l'opposizione all'attuale politica capitalista confusamente e senza una propria autonomia di pensiero e iniziativa, ma certo con un alto livello di tensione verso i cosiddetti processi di globalizzazione.
Gli scontri di Goteborg e il ferimento del compagno sparato da un poliziotto - visto che il cosiddetto movimento aveva sufficientemente digerito Praga e tutta la repressione che ne era seguita e le violenze della polizia a Napoli (con il solito corollario di violenze poliziesche nelle caserme e successive dimostrazioni di fascistizzazione delle forze repressive), hanno riproposto il dibattito sul problema violenza-non violenza. Con ben altra funzione però del porre sul tappeto la vera faccia del capitalismo e dello stato, la sua funzione repressiva e violenta, l'attuale necessità di guerra da parte della borghesia (una guerra per estendere il proprio dominio nei confronti di chi non si piega ai suoi interessi, una guerra interna verso i proletari che lottano contro lo sfruttamento capitalista, i suoi organi e simboli) e per determinare una giusta valutazione di questo problema. Un problema su cui, in realtà, difficilmente questo movimento potrà avere una posizione omogenea. Il dibattito comunque ha sviato andando a collocarsi su un terreno che vuole a tutti i costi tenere imbrigliate le tensioni attuali attorno ad un dialogo tutto interno alle necessità di non rompere con le attuali strutture istituzionali "democratiche". Il dibattito violenza/non violenza ha assunto così il ruolo di far sì che il movimento contro la globalizzazione si definisca come non violento e pacifico e bolli come cattivi tutti coloro che rifiutano tale logica.
Si è arrivati a richiedere alle istituzioni di fare in modo che "i violenti fossero preventivamente fermati e impedito loro di "infiltrarsi" nei cortei così come successo a Goteborg" e questo non solo dopo Genova ma anche durante la fase preparatoria.
La campagna stampa, peraltro iniziata con il governo di centrosinistra e sponsorizzata dai servizi segreti (non solo italiani), ha creato tutte le condizioni perché questa divisione prendesse sempre più corpo spingendo molti a prendere posizione nei confronti di eventuali atti di violenza. Un risultato ottenuto anche in molti settori della sinistra antagonista. Genova sarebbe stato un crocevia di azioni di tutte le organizzazioni da loro definite terroristiche: da attacchi con sangue infetto a aerei telecomandati con ordigni esplosivi e gas nervino e così via.
La campagna stampa e le prese di posizione di alcuni settori "antagonisti" hanno fatto sì che la strategia repressiva potesse colpire facilmente quei settori che non avevano accettato tale logica. Nei mesi precedenti al vertice (e precedenti anche alla svolta elettorale) è stato un susseguirsi di perquisizioni di compagni e compagne appartenenti a queste realtà fino ad arrivare agli arresti per banda armata effettuati a Roma proprio nei giorni precedenti il vertice. Non una parola è stata spesa per questi compagni dai famosi portavoce del movimento antiglobalizzazione.
Mentre si attuava tale strategia i rappresentanti del movimento si incontravano proprio con coloro che l'avevano preparata e la stavano portando avanti.
Che il clima della piazza a Genova avrebbe assunto dei livelli repressivi e di scontro superiori a quanto eravamo abituati a vedere negli ultimi anni eravamo in molti a prevederlo, ma certo non ci immaginavamo l'intensità che ci siamo trovati davanti, abituati com'eravamo alla repressione "selettiva" operata dalle scelte politico-repressive del precedente governo di centrosinistra.
La polizia, i carabinieri, la guardia di finanza e l'esercito erano stati preparati secondo una strategia militare: la tattica di scontro ha riproposto in pieno la logica di scontro tra due eserciti.
Due elementi su cui si sono spese molte parole sono stati la individuazione della responsabilità dei pestaggi nella violenza di alcuni settori della manifestazione e l'assenza di una repressione preventiva e mirata verso quei settori di violenti che sono stati lasciati liberi di fare le loro azioni.
Come già detto la repressione era già stata preparata (sia per quanto riguardava la prevenzione sia per quanto riguardava lo scontro di piazza). La fase preventiva si era già dispiegata attraverso la piena applicazione del trattato di Schengen (che prevede il ripristino dei controlli alle frontiere tra i paesi aderenti in qualsiasi momento venga messa a rischio la sicurezza nazionale, l'utilizzo della Banca Dati Schengen per l'individuazione di soggetti segnalati per reati politici, terrorismo ecc... per impedire il loro ingresso in paesi membri) e utilizzando quanto previsto dai processi di integrazione di polizia a livello internazionale ed in particolare europeo. E' molto "divertente" il fatto che proprio le segnalazioni più "eccitanti" siano arrivate dai servizi stranieri la cui presenza, anche all'interno dei posti di polizia e degli ospedali, è stata segnalata più volte nei giorni del G8.
La macchina da guerra preparata per la repressione della piazza era li che attendeva: le nuove tenute antisommossa, i gas urticanti, le nuove armi per l'ordine pubblico (gas al peperoncino, spray urticanti, nuovi manganelli) non si improvvisano. E tutto questo, in qualunque modo lo si veda, è patrimonio della politica repressiva della destra come del centrosinistra e ci dovrebbe far riflettere su quali margini di conflitto "democratico" possano esistere in questa fase (se mai siano esistiti) ed in particolare per una lotta che non può che essere radicalmente anticapitalista.
Esisteva la chiara volontà di dare una dimostrazione della forza che lo stato è in grado di mettere in campo nel momento in cui vengono messi in discussione il suo ruolo e gli interessi che deve salvaguardare. Che motivi per intervenire ce ne sarebbero stati ne eravamo consapevoli tutti, ma non serviva niente di più di quello che normalmente il "teatro della rivolta" aveva presentato in occasioni di vertici internazionali. Erano sufficienti i tentativi di sfondamento massmediatici per garantire una legittimazione a quanto è successo.
La caserma di Bolzaneto era già stata preparata così come erano già state preparate le celle comuni, le "stanze delle torture", la possibilità di allontanare immediatamente gli arrestati e disperderli in più carceri lontani da Genova per impedire sia manifestazioni di solidarietà sia il rispetto del diritto di vedere avvocati e di comunicare. Questa pratica è usuale nei confronti dei militanti rivoluzionari. Quello che abbiamo visto a Genova è solo una piccola dimostrazione di quello che succede ai giovani compagni baschi nelle caserme della polizia coloniale spagnola, ai compagni turchi nella "democratica" Turchia o di quello che accade nelle periferie delle metropoli francesi o ai compagni palestinesi arrestati e trattenuti senza accuse in stato di detenzione amministrativa.
Abbiamo visto il vero volto del dominio capitalista, quale strategia usa per generare un clima divisione all'interno del movimento.
Quello che è successo dentro Bolzaneto, nella scuola Diaz, nella piazza contro i manifestanti e, in particolare, durante i rastrellamenti successivi in città certo non faceva parte dei nei nostri ricordi recenti. Ma è presente a chi ha assistito ai pestaggi all'interno delle carceri italiane nei confronti dei compagni incarcerati, alle torture operate su compagni che per giorni sono stati tenuti in luoghi non ufficiali e torturati dai rinomati uomini di Dalla Chiesa, alle operazioni della Celere di Padova...
La polizia non sparava nelle piazze da anni anche se nella "normale" gestione dell'ordine pubblico nelle città non sono nuovi esempi di proletari sparati alle spalle: Pedro Walter Greco venne assassinato davanti casa nel 1985 non nel 1970; la polizia spara ai proletari ai posti di blocco e durante gli inseguimenti ad ambulanti "abusivi" o presunti spacciatori.
La morte di Carlo Giuliani sconvolge la vita di tutti noi: le immagini che ci siamo trovati davanti non possono trovare né scuse né colpevoli improvvisati, utili solo a rituffarci il giorno dopo nella "dimensione virtuale" dello scontro. Da tempo non si dava una contestazione alle attuali politiche della borghesia imperialista che si ponesse come condizione per delegittimarle sfuggendo alle maglie della compatibilità e cercando di assumere una propria autonomia politica e organizzativa. E se questo dovesse avvenire, Genova e quanto abbiamo visto non sarà una eccezione.
Ciò che già era stato preparato dal precedente governo di centro sinistra, con la gestione che è propria della destra fascista italiana, ha determinato quello che molti hanno chiamato un pestaggio indiscriminato.
Arrivare a affermare la necessità che la polizia - responsabile di quanto avvenuto a Genova - intervenisse contro i violenti e richiederne l'intervento è, a nostro avviso, assai grave e tali affermazioni dovranno trovare una giusta opposizione all'interno del movimento. Quanto già detto evidenzia chi è realmente il responsabile della repressione avvenuta a Genova ed è quindi da chiedersi perché, conoscendo meglio di noi le dinamiche di quanto successo, ci sono ancora soggetti che possono fare affermazioni del genere. Io posso dichiararmi non violento, ma per questo non devo certo chiedere di reprimere chi ritiene che tale elemento dello scontro non possa essere escluso o chi lo pratica nella sua autonomia decisionale così come è stato a Genova. Il mito del "Black Block" inserito nel corteo che provoca la repressione violenta della polizia è uno spauracchio da sfatare. Affermare che esiste un livello omogeneo che questo movimento esprime a livello di scontro di piazza e che qualcuno lo imponga o voglia farlo é una pura utopia. Se il movimento è composito e eterogeneo lo è in tutti i suoi aspetti. A meno che la scelta "non violenta" non sia unicamente funzionale all'omologazione voluta dal potere giacché non notiamo dall'altra parte nessuna forzatura nel dare altre direzioni.
Se viene affermato che nel mondo l'80% della popolazione vive con il 30% della ricchezza speriamo che questo 80% si rivolti e cominci a porsi il problema di come modificare questa situazione e non è detto che ogni volta decida di voler stare a quanto è "democraticamente" deciso dal potere. Ma questo 80% non è detto che viva a molte migliaia di chilometri da noi e che sia da "aiutare" con le briciole della tobin tax o con le miserie che porterà il rilancio del commercio nei paesi a cui verrà condonato il debito pubblico (che servirà alla stessa stregua dei dettami FMI), ma può darsi che viva al nostro interno, nella ricca Europa, che si leghi con le istanze politiche e sociali degli altri proletari, che individui dei nemici visibili (le banche che affamano attraverso la gestione dei grossi flussi finanziari delle famose multinazionali dello sfruttamento, i padroni per noi ogni volta così distanti). E così possono pure decidere che per loro una manifestazione non è solo una festa, ma un momento in cui colpire questi simboli dello sfruttamento contro cui 300.000 persone vanno a manifestare.
Possiamo affrontare il problema se ciò sia giusto o meno all'interno di un corteo o di una scadenza come quella di Genova, se in quel momento riesce a produrre un avanzamento nella individuazione del nemico di classe o un arretramento davanti all'attacco controrivoluzionario. Ma ciò presupporrebbe un livello di sviluppo della coscienza dello scontro a cui il movimento attuale non sembra attestato sia a livello di analisi che politico/organizzativo o di "gestione di piazza".
E' perciò pretestuoso affermare che una vetrina rotta non cambia il mondo, che può essere usata per attaccarci ... ecc. ... perché tale affermazione potrebbe essere fatta su tutte le forme che finora questo movimento ha espresso. La mitizzazione romantica dello scontro, la poesia di Marcos o il "mettete fiori nei vostri cannoni" sono scenari che preferiamo lasciare ad altri.
L'attuale fase storica dimostra la difficoltà di ottenere concessioni dal potere - a meno che queste non rappresentino una sua esigenza di gestione e normalizzazione del conflitto - e questo si traduce, per il potere stesso, nella necessità di intensificare gli sforzi e le pratiche repressive. Questo era già chiaro nelle scadenze precedenti e nella quotidianità dello scontro ed è stato un vero errore che a Genova sia stata sottovalutata la necessità di difendere il corteo o almeno una parte di questo.
Già nelle varie iniziative del venerdì traspariva tale esigenza: la morte di un compagno e la repressione che si era scatenata avrebbe dovuto accrescere la sua considerazione. Cosa assai grave è invece che molti spezzoni del corteo si ponessero un problema diverso: tenere fuori il "black block" diventato il nemico da cui difendere un "corteo pacifico". E chi ha deciso che fosse "pacifico"?
Gli unici che, nella realtà dei fatti, hanno saputo difendersi e mettere in difficoltà le forze dell'ordine sono stati proprio gli spezzoni organizzati che sono stati impropriamente e strumentalmente ricondotti al Black Block. Non è che a polizia non li abbia attaccati (come qualcuno afferma per avvalorare la tesi che chi compie azioni dirette è colluso con le forze dell'ordine o con i fascisti o che, quanto meno, si tratta di provocatori al di fuori della politica), ma si è trovata davanti chi si era posto anche la necessità di difendersi ed ha aiutato molti "dispersi" a sfuggire alle cariche della polizia.
Oltretutto, particolarmente dopo il venerdì, tutti si sono adoperati, come potevano, a cercare di inventarsi strumenti di difesa e ad organizzarsi con altri per difendersi.
Chi invece, pur facendo proclami di guerra e minacciando forzature di una delle zone meglio protette, non si è organizzato in tal senso ha compiuto, a nostro avviso, una leggerezza politica per la quale non è sufficiente nascondersi dietro le azioni del fantomatico Black Block.
Ma ancor più vergognoso è stato il tentativo di arrogarsi il diritto di decidere chi era o meno dentro questo movimento additando "i violenti" come esterni, provocatori, nazisti e poliziotti; scatenando, fin da dentro il corteo, la caccia al "black"; sostenendo nelle campagne stampa successive teorie a dir poco deliranti e tali da far dimenticare velocemente chi era stato arrestato (per non rischiare di essere coinvolti col terribile black block).
Infatti, all'estero la solidarietà, le manifestazioni di dissenso contro gli arresti sono state maggiori che in Italia dove non ci si è mossi fino a quando non è stato chiaro che gli arrestati non appartenevano al black block.
A questo punto si pone un problema: quale prospettive può avere il cosiddetto movimento antiglobalizzazione.
Non entriamo volutamente nel problema della piazza perché è chiaro che se il livello repressivo con cui dovremo rapportarci in futuro è quanto abbiamo visto a Genova e nei giorni precedenti dovremo attrezzarci per affrontarlo. Ma questo presuppone che vadano a costruirsi processi aggregativi, in una prima fase anche parziali
In ogni caso il movimento nel suo complesso ha la necessità di trovare una sua autonomia e se deve sperimentare forme nuove le sperimenti perché per ora non vediamo niente di nuovo se non un aspetto imprescindibile dello scontro attuale: la internazionalizzazione. Quello che si è visto nei giorni successivi a Genova è una chiara dimostrazione di quanto ci si stia avviando verso una acquisizione di coscienza internazionale dello scontro e le iniziative di solidarietà all'estero nei confronti dei manifestanti pestati e arrestati sono andate, a nostro avviso, oltre le aspettative. Non pensiamo di poter definire tutto ciò come un unico movimento, ma questo dimostra sicuramente che le istanze proletarie a livello internazionale possono unirsi al di là di Port Alegre o altro.
Quando si dice di voler sperimentare forme nuove spesso si vuole nascondere la vera necessità storica per i proletari di tutto il mondo: decidere del proprio futuro. Vediamo che alla orizzontalità del movimento corrisponde in realtà una serie di portavoce che non rispondono ad alcuna base e, per le loro innumerevoli presenze nelle conferenze stampa, dubitiamo che ci sia stata la possibilità che qualcuno abbia potuto parlare con loro. Oltretutto molti di loro appartengono a quel mondo del no profit che è stato uno degli strumenti cardine della privatizzazione dei servizi sociali e non solo o alla "Banca Etica" e al "commercio equo e solidale", che non brillano certo per chiarezza politica.
Ed è quindi necessario prepararsi a rapportarsi con le contraddizioni che questo movimento produrrà.
Questo presuppone di rimettere in gioco tutto il nostro sforzo politico con il fine di individuare dei percorsi di lotta quotidiana e generale, collocati su un piano internazionale, che sappiano da una parte raccogliere le istanze rivoluzionarie e anticapitaliste presenti nei singoli paesi e organizzarle su un terreno internazionale, dall'altra trovare terreni di iniziativa di massa valorizzando le rivendicazioni anche parziali a cui i movimenti tendono attualmente e individuando quali rivendicazioni parziali meglio si riconducono al piano generale .
La lotta contro le politiche imperialiste in medio oriente può realizzare la nostra dimensione di scontro con l'entità sionista e contro i suoi interessi, ma nello stesso tempo può trovare una sua collocazione nella dimensione del movimento di massa. La presenza del conflitto palestinese, la sua importanza rispetto al controllo delle risorse energetiche nell'area mediorientale, si unisce direttamente alla lotta contro la presenza nel mediterraneo della flotta americana e l'allargamento della Nato a Sud rafforzando l'aspetto di lotta antimperialista e antimilitarista, contro la presenza delle petroliere nel mediterraneo rafforzando la lotta ambientalista, contro la guerra in Jugoslavia e così via ...
Occorre collocare elementi parziali, di cui spezzoni del movimento si fanno portatori, all'interno del problema della distruzione del sistema capitalista e delle sue strutture.
Senza un passaggio organizzativo (anche parziale) delle tendenze anticapitaliste e antimperialiste all'interno dei singoli paesi che vada a unirsi con altri settori a livello internazionale sarà problematico creare un riferimento per le istanze del movimento contro la globalizzazione che sviluppano una critica all'attuale prospettiva opportunista ricercando altre strade che attualmente si dimostrano molto deboli e nella maggioranza dei casi solo enunciate.
Ma esiste la possibilità reale che le attuali tensioni possano essere in qualche modo contenute all'interno dei cosiddetti "limiti democratici" annullando così tutta la spinta positiva che questo movimento sta esprimendo.
Le questioni della repressione, della prigionia, della integrazione tra le polizie, dell'esercito europeo, di Schengen, della Nato ... sono temi che devono riuscire a vivere nella nostra iniziativa politica in quanto parti della strategia di guerra che il capitale porta avanti. E devono trovare un terreno di iniziativa che si sviluppi fin da subito su un terreno internazionale, che non obbligatoriamente deve trovare scadenze di piazza in occasione di un vertice, ma che può, in una prima fase, vedere iniziative coordinate e/o momenti di dibattito a livello internazionale in paesi diversi, ma negli stessi momenti.
La repressione avvenuta a Genova, i processi che ne seguiranno, la sorte dei compagni arrestati, devono diventare patrimonio di lotta fin da subito.
Il problema dello sfruttamento della forza lavoro, le politiche di smantellamento e privatizzazione dei beni e servizi pubblici rappresentano nell'area mediterranea un punto di collegamento con i proletari e le loro organizzazioni nei paesi che subiscono e subiranno negli anni a venire gli accordi di libero scambio costituendo il terreno di collegamento con le organizzazioni politiche e di lavoratori che lottano contro le politiche della borghesia imposte tramite il FMI.
Difficilmente si vede in questo momento la possibilità di poter convocare iniziative autonome per sviluppare le condizioni per un processo organizzativo serio e duraturo, ma quanto sviluppatosi in questi mesi non può essere disperso o quantomeno non valorizzato. Se ancora avremo bisogno di scadenze imposte da altri per poter fare passi avanti questo può non essere un problema, se nel frattempo si sviluppa nei singoli paesi e città un dibattito che vada in questa direzione.


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