Processi politici e conflitto
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Intervista all'avvocato S. Clementi, difensore di alcuni
prigionieri islamici.
Le cronache giudiziarie dell'ultimo decennio paiono essere
rivelatrici di una realtà sociale che i benpensanti di ogni colore
ritenevano consegnata alla storia. La storia dei conflitti e della loro
composizione. Eppure proprio in questo decennio (che si accinge a divenire
ventennio) la realtà sociale ha conosciuto conflitti che hanno
contrapposto, e contrappongono, frazione di borghesia che si sono rappresentati,
e si rappresentano, in sede giudiziaria e non solo (vedi la cosiddetta
tangentopoli e gli attuali processi a Berlusconi e associati) ed in successione
i processi a carico di presunti terroristi (anarchici, CARC, Iniziativa
Comunista etc.), di militanti delle Organizzazioni Comuniste Combattenti
ed infine, in forma inedita, di militanti di Organizzazioni islamiche.
I processi politici, quindi, hanno assunto un rinnovato ruolo quale strumento
di repressione dei conflitti confermando la natura e la funzione di controllo
sociale tipica del Sistema Giudiziario borghese.
La "questione islamica" assume rilievo giudiziario, a livello
internazionale, contemporaneamente o in seguito al sorgere dei conflitti
imperialisti che si consumano, con nuovo vigore, in Jugoslavia, nel Medio
Oriente e nei Paesi del Nord Africa. Appare utile notare come i Gruppi
islamici sono, in tale epoca ed in tali contesti geografici, le uniche,
o comunque le più evidenti, istanze di opposizione organizzata,
anche armata, alle politiche imperialiste, sebbene motivate da ragioni
religiose.
In Italia le prime indagini sistematiche a carico di militanti islamici
prendono avvio sul finire degli anni '90. In particolare è nel
1998 che si colloca la prima e massiccia operazione giudiziaria che colpisce
8 cittadini algerini, già residenti in Italia, e ritenuti, a dire
della Procura della Repubblica di Milano, membri di un'Organizzazione
terroristica denominata Al Takfir, già costola secessionista del
più noto GIA algerino, Gruppo Islamico Armato. In verità
queste prime indagini prendono avvio tre anni prima, ossia nel 1995, su
impulso, o meglio "su delega", della Magistratura inquirente
francese, nella persona del Giudice Istruttore parigino Jean Louis Bruguiere.
Gli investigatori francesi, infatti, avevano, in tale epoca, già
eseguito numerosi arresti, circa ottanta, a carico di cittadini, per lo
più algerini e tunisini, e ciò a seguito della serie di
attentati che colpivano le stazioni della metropolitana di Parigi e che
si concludevano con la nota e grottesca caccia al presunto responsabile
che veniva ucciso in un impari conflitto a fuoco dagli agenti della DST
francese (Dipartimento per la Sicurezza del Territorio, l'equivalente
dei Servizi Segreti con competenza di antiterrorismo).
Il procedimento penale italiano, con appunto 8 arrestati, si arenava immediatamente
con la scarcerazione di tutti gli arrestati (su otto in verità
2 erano già latitanti ed uno collaborava con la Magistratura italiana).
Il processo, celebrato avanti al Tribunale di Milano, viene quindi annullato
per ben due volte per poi essere trasferito, per competenza territoriale,
avanti al Tribunale di Napoli ove è tuttora pendente.
Negli anni successivi, sempre a Milano e a Bologna, si aprono procedimenti
penali a carico di cittadini egiziani, con accuse simili a quelle già
rivolte agli algerini.
Solo nel 2001 si teorizza, sempre da parte della Procura della Repubblica
milanese, questa volta su ispirazione dei Servizi inglesi e statunitensi,
la formazione in Europa, ed in Italia in particolare, di organizzazioni
terroristiche facenti capo alla cosiddetta rete di Al Qaeda di Osama Bin
Laden. Rete di organizzazioni sino allora sconosciuta nel quadro delle
investigazioni giudiziarie italiane e francesi. Sino a tale momento e
nello specifico sino ai fatti dell'11 settembre 2001, agli arrestati veniva
contestato, a tutti indistintamente, il reato di associazione a delinquere
finalizzata al traffico di armi ed in connessione al terrorismo internazionale
nonché alla predisposizione di documenti di identità falsi
per agevolare gli spostamenti dei presunti terroristi sul territorio internazionale.
Questi procedimenti prendevano spunto e procedevano addirittura sulla
base di vere e proprie istruzioni da parte della CIA e dirette per lo
più agli investigatori milanesi nella persona del Dott. Stefano
Dambruoso, Sostituto Procuratore della Repubblica di Milano. L'attentato,
o più precisamente gli attentati, che si realizzavano l'11 settembre
2001 negli USA, modificavano, come è noto, la legislazione in materia
di "terrorismo" non solo sul piano nazionale ma anche, e soprattutto,
su quello internazionale. In particolare, oltre al rituale impegno, fatto
proprio dagli Stati Imperialisti, di coordinare la "lotta al terrorismo",
si è concretizzato, anche su questo piano, una sorta di Direzione,
ideologica e militare, a favore degli USA che hanno tracciato, o meglio
aggiornato, una vera e propria lista delle Organizzazioni e degli Stati
che debbono ritenersi "terroristi" e come tali dichiarati "illegali"
e quindi destinatari, con ogni mezzo, di repressione e liquidazione. Gli
Stati europei, per lo più, si sono limitati a recepire la lista
e a dare esecuzione ai precetti USA. La legislazione italiana, già
ricca di strumenti di repressione, ha unicamente modificato, con il D.L.
18.10.2001, poi convertito nella Legge 15.12.2001 n. 438 "Disposizioni
urgenti per contrastare il terrorismo internazionale", l'art. 270
bis del codice penale (Associazioni con finalità di terrorismo
anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico"), estendendo
il concetto di finalità di terrorismo all'ipotesi, prima non prevista,
che "gli atti di violenza siano rivolti contro uno stato estero,
un'istituzione o un'organismo internazionale" Tale modificazione,
di per sé modesta, realizza in verità una micidiale possibilità
di reprimere chiunque organizza, solidarizza, in qualunque forma, in Italia,
con le Organizzazioni Internazionali e Rivoluzionarie che siano definite
appunto "terroristiche" nella famigerata lista USA, e fra questi
praticamente tutte le Organizzazioni di ispirazione marxista o islamiche,
e in ogni caso di 'prassi antimperialista.
La norma citata consente, almeno in via teorica, di incriminare anche
in Italia, tutti coloro che sviluppino lotte o iniziative di solidarietà,
siano esse campagne di controinformazione o di sostegno economico, con
Soggetti od Organizzazioni straniere che, nel loro metodo di lotta, facciano
ricorso alla lotta armata contro i propri Governi. In via di esempio potremmo
ritenere soggetti all'art. 270 bis del codice penale coloro che, in Italia,
dovessero organizzare semplici e pacifiche iniziative di lotta a favore
delle Organizzazioni Palestinesi protagoniste dell'Intifada ovvero con
le Organizzazioni Rivoluzionarie turche o latino americane etc..
Possiamo, quindi, notare come al di là del piano della repressione
più propriamente giudiziaria, con esiti generalmente poco rilevanti
sotto il profilo delle pene applicate, si è, in verità,
sapientemente realizzato un terreno, legislativo e di prassi investigativa,
capace di sviluppare un efficiente sistema di controllo preventivo e di
repressione dei movimenti dichiaratamente antimperialisti.
Sul piano carcerario va detto che le condizioni di prigionia riservate
ai militanti islamici arrestati sono di particolare durezza con costante
violazione dei più elementari diritti pur riconosciuti in via formale
dall'Ordinamento Penitenziario italiano. Pur essendo, gli stessi, soggetti
al noto regime carcerario denominato EIV, elevato indice di vigilanza,
raramente hanno la possibilità di usufruire di ore d'aria,di mantenere
rapporti di socialità con altri detenuti, di corrispondere con
parenti e amici e di disporre di mezzi di informazione, assoggettati ad
una censura che si traduce in una vera e propria assenza di qualsivoglia
contatto con l'esterno oltre che dislocati nelle carceri più lontane
.anche dai propri difensori di fiducia, per lo più Palmi, Biella,
Porto Azzurro, Spoleto e Sulmona.
A fronte di tali condizioni dobbiamo rilevare che la caratteristica peculiare
di pressoché tutti i procedimenti penali celebrati con le "vecchie"
imputazioni, ossia con quelle contestabili prima delle modifiche introdotte
a seguito dei fatti dell'11 settembre 2001, era la totale assenza di elementi
di prova specifici a carico degli imputati con accuse teoriche, per lo
più di matrice USA, sull'esistenza di una sorta di rete terroristica
facente capo al famigerato Osama Bin Laden. Inutile dire che, sul piano
squisitamente giudiziario, non vi è la benché minima prova
giuridicamente valida dell'esistenza non solo della presunta rete terroristica
ma neppure di Al Qaeda, che, sulla base del teorema accusatorio, dovrebbe
rappresentare il vertice decisionale della medesima rete terroristica.
Le condanne comunque comminate agli imputati, relativamente modeste a
fronte delle accuse mosse, si fondano sulla semplice validità del
predetto teorema e traggono la loro forza dall'imperativo di reprimere
comunque e ovunque. Quanto, invece, ai procedimenti penali, che vedono
imputazioni proprie di terrorismo internazionale con la nuova formulazione
prevista dall'art. 270 bis codice penale, si trovano ancora nella fase
delle indagini preliminari e preannunciano una sanzione di particolare
durezza.
Questi procedimenti penali, nel loro complesso, hanno tuttavia consentito,
per chi ne volesse ancora conferma, di svelare il carattere borghese di
qualsiasi Ordinamento Giuridico e Giudiziario, e ciò con particolare
riferimento alla loro presunta democraticità. A riprova di ciò
è sufficiente comprendere che molti degli elementi di accusa utilizzati
nei processi, italiani ed europei, contro i militanti islamici sono stati
acquisti "per rogatoria" come dire in verità che sono
stati estorti, con metodi tutt'altro che "democratici e garantisti",
ai prigionieri di Guantanamo, ove si pratica per espressa ammissione USA,
la tortura, ovvero dai Servizi Egiziani, Tunisini etc. La conseguenza
è che le condanne, e prima di esse gli arresti, dei militanti islamici
in Italia avvengono sulla base di dichiarazioni accusatorie rese da altri
presunti militanti islamici nel corso di "interrogatori" resi
nei Lager di Guantanamo o nelle Carceri Militari egiziane, tunisine etc.
E ciò con buona pace dei democratici e dei garantisti nostrani
che possono giurare sul fatto che in Italia "non si torturano neppure
i terroristi".
Uno sguardo alle qualità degli imputati consente di rilevare come
gli stessi siano per lo più giovani immigrati, poco più
che ventenni nella media, con collocazioni lavorative tipicamente operaie
e comunque precarie. Le rivendicazioni, quelle personali, degli stessi
paiono aver subito una significativa evoluzione nel corso degli anni.
Se gli algerini e gli egiziani arrestati sul finire degli anni '90 erano
certamente orientati su posizioni esclusivamente religiose e motivati
da una forte contrapposizione "all'Occidente infedele", i più
recenti arresti, sin dal 2001, si riferiscono a soggetti che non tralasciano
la critica alle condizioni sociali ed economiche in cui vivono i propri
popoli, individuando nell'imperialismo Usa e Israeliano, non meno di quello
europeo, le cause di oppressione e di povertà. E non a caso, oggi,
gli investigatori e gli analisti di Governo paiono suggerire, con buona
dose di fantasia o di sapiente propaganda, la realizzazione di un'alleanza
tra Organizzazioni Comuniste ed islamiche, con intuibili conseguenze sulla
direzione delle prossime iniziative giudiziarie.
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