SENZA CENSURA N.12
NOVEMBRE 2003
La lotta del popolo palestinese in una prospettiva storica
Abbiamo deciso di cercare di collocare in una prospettiva storica la lotta del popolo palestinese, ricostruendo per sommi capi le tappe dello sviluppo della penetrazione e del consolidamento dell’imperialismo nell’area, così come la maturazione del movimento di liberazione in tutti i suoi molteplici aspetti, convinti che una migliore comprensione del passato sia d’ausilio per una più penetrante lettura del presente dal punto di vista rivoluzionario.
Non si tratta quindi di un arido esercizio accademico, né di uno sfoggio di erudizione formale, ma di un partecipato e partigiano tentativo di ricostruzione storica in grado di dare un contributo allo sviluppo di una sensibilità ed un agire militante.
Vista la mole del lavoro e il suo peso nell’economia della rivista, abbiamo deciso di pubblicare prima una scansione cronologica che partisse dalle origini per arrivare al presente e poi, nei prossimi numeri, una trattazione tematica che comprendesse la prima e la seconda Intifada.
La memoria dell’oblio
«Tutti capiscono che il problema è nelle relazioni tra ebrei e arabi. Ma non tutti capiscono che non c’è soluzione al problema. Non c’è soluzione! [...] Il conflitto fra gli interessi degli ebrei e gli interessi degli arabi in Palestina non può essere risolto per sofismi. Non conosco nessun arabo che sarebbe d’accordo di vedere nostra la Palestina: nemmeno se impariamo l’arabo, e io non ho bisogno d’impararlo. D’altro lato non vedo perchè Mustafa dovrebbe imparare l’ebraico. Qui c’è una questione nazionale: noi vogliamo che il paese sia nostro, gli arabi lo vogliono per sè» (Ben Gurion, futuro “padre fondatore” di Israele, 1919)
Una comparazione tra “prima” e “seconda” Intifada, necessita di una collocazione spazio-temporale in grado di storicizzare La Questione Palestinese.
Bisogna essere in grado di cogliere il processo storico che ha portato allo sradicamento dalla propria terra del popolo palestinese e alla sua proletarizzazione per opera delle forze sioniste e dell’imperialismo, così come il ruolo giocato dagli stati arabi.
Questo processo ha inizio già ai tempi dell’Impero Ottomano, prosegue durante il protettorato inglese dopo la prima guerra mondiale, continua prima e durante la formazione dell’entità sionista a ridosso della seconda guerra mondiale, fino al consolidamento successivo attraverso i vari conflitti arabo-israeliani, come quelli nell’area euro-mediterranea, passando per l’ascesa e il declino del pan-arabismo e il progressivo affermarsi, con gli esiti della rivoluzione iraniana nel ’79, dell’islam politico nelle sue differenti articolazioni, come forza anti-imperislistica nell’area.
Quello che verrà chiamato dagli imperialisti “medio-oriente”, middle-east secondo la definizione britannica, o “vicino-oriente”, proche-orient secondo la definizione francese, sarà un terreno di contesa tra le prime potenze coloniali nell’area per il controllo delle rotte mercantili, successivamente all’apertura dell’istmo di Suez e alla scoperta del petrolio sarà teatro di scontro tra Germania, impero zarista, Inghilterra, Francia e poi tra queste e la potenze imperialiste americana e sovietica, che scalzeranno definitivamente Francia e Gran Bretagna dopo la crisi del Canale di Suez nel ’56.
L’Unione Sovietica che sarà la prima potenza nell’ambito dell’ONU a riconoscere lo stato d’Israele, incomincerà ad avere un peso, insieme agli altri stati socialisti dell’est europeo, con l’affermarsi delle forze progressiste all’interno della rivoluzione egiziana che porterà al potere Nasser e appoggerà la resistenza palestinese solo dopo la sconfitta araba del ’67, divenendo una sponda importante per lo sviluppo di tale movimento, di cui le organizzazioni laiche e progressiste sono tutt’ora orfane. All’inizio degli anni ’90 dopo aver storicamente negato la possibilità di emigrazione della sua componente ebraica in Israele, in accordo con quest’ultima e con gli Stati Uniti, che negheranno l’accesso agli immigrati russi, fornirà quella riserva indispensabile di un milione di immigrati che affluiranno nell’entità sionista e che saranno la punta di lancia della strategia demografica israeliana e del proseguimento della colonizzazione dei Territori Occupati nella contro-offensiva lanciata nel corso della prima Intifada.
Alla fine della Guerra Fredda, l’imperialismo americano, insieme ai suoi alleati nell’area, risulterà vincitore nello scontro con il blocco sovietico: la fine della prima guerra del Golfo e della prima Intifada consolideranno il suo dominio, supportato da una massiccia presenza militare nell’area, mentre il legame organico con l’entità sionista sarà suggellato da un trattato di alleanza strategica sin dal dicembre del 1981.
La nascita dello stato d’Israele e i conflitti arabo-israeliani sono i fondamentali passaggi della trasformazione in senso capitalistico dell’intera area, imponendo un vero e proprio salto di qualità della barbarie imperialista con la nakba1, termine arabo che si può tradurre con «catastrofe» o «disastro» che ha dato inizio alla prima Diaspora palestinese in tutto il mondo arabo, alla spartizione della Palestina tra i regimi arabi confinanti (Giordania ed Egitto), e all’inasprirsi della pressione imperialistica nell’area.
La sconfitta subita durante la cosiddetta “Guerra dei Sei Giorni” nel ’67, oltre a comportare un estensione territoriale dell’entità sionista, con la conquista manu militari della striscia di Gaza e della Cisgiordania, e a provocare una nuova ondata di profughi in direzione della Giordania, ipotecherà definitivamente le speranze dei palestinesi in un intervento vittorioso degli Stati Arabi, facendo crollare la fiducia nell’Egitto nasseriano, e darà una connotazione differente alla guerriglia Palestinese, dopo pochi anni dalla sua entrata in scena.
I fallimentari tentativi di insediare stabilmente la guerriglia nei Territori Occupati e la scelta di spostare il centro propulsore dell’azione in Giordania fino a Settembre Nero e poi in Libano, fino alla guerra civile libanese e alla successiva guerra dei campi, volta a liquidare definitivamente l’OLP che sarà “esiliata” a Tunisi, costituiscono le tappe successive delle condizioni in cui si trovano ad agire le forze della resistenza: lo scoppio dell’Intifada nei Territori Occupati militarmente da Israele nel ’67 cambierà radicalmente la situazione.
L’OLP, riceverà nuovamente un riconoscimento sia dalla leadership del movimento dei Territori Occupati, che fa capo a un “commando unificato”, esemplificato dallo slogan: “noi agiamo, l’Olp parla per noi”, sia a livello internazionale, a cominciare proprio dalla Lega Araba, che aveva ignorato la causa palestinese negli incontri avuti prima dello scoppio dell’insurrezione.
La Siria, dopo l’omicidio di Abu Jihad nell’aprile dell’88, e la Giordania, a fine Luglio dello stesso anno, abolendo il piano giordano di sviluppo dei territori occupati e sciogliendo l’Assemblea nazionale giordana, riavvieranno nuovamente i rapporti diplomatici e si schiereranno con la causa palestinese, la Lega riconoscerà a giugno ad Algeri nell’OLP: “l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese”, mentre la Comunità Europea si proporrà come interlocutore meno intransigente degli USA per la costruzione di uno stato palestinese.
I valzer diplomatici e i tatticismi dei “tunisini” dell’OLP, iniziano con L’Intifada e non nel suo periodo declinante, tentando di dare uno sbocco e una soluzione politica negoziata al conflitto.
Una nuova generazione di giovanissimi combattenti, che non avevano conosciuto la vita se non nei campi profughi, si opporrà ad Israele prima con il lancio di pietre e poi, all’interno di una “guerra popolare di lunga durata” nelle sue più varie articolazioni, con delle azioni sempre più di profilo guerrigliero.
Furono promossi scioperi politici, serrate degli esercizi commerciali, l‘obiezione fiscale e la non collaborazione amministrativa con l’occupante, costruendo allo stesso tempo una rete socio-assistenziale-scolastica propria, alternativa all’amministrazione Israeliana e dando il là per l’azione di supporto da parte della comunità araba residente in Israele, come della popolazione dei campi profughi nel mondo arabo e della comunità palestinese internazionale: le tre spine nel fianco del progetto imperialista.
La contro-offensiva Israeliana farà leva sulla bomba demografica dell’immigrazione russa, sull’esaurirsi delle risorse alimentari, sulle punizioni collettive della popolazione – come licenziamenti, coprifuoco, rastrellamenti, detenzione amministrativa - oltre che sulla repressione dura e cruda, sulle deportazioni e le uccisioni mirate, parti integranti della politica semplificata dal ministro della difesa: “forza, aggressione, bastonate”.
Per giungere più vicini a noi, con la fine del primo conflitto irakeno con gli USA, successivo al termine del decennale conflitto con l’Iran uscito dalla “rivoluzione khomeinista”, e i successivi accordi di Oslo nel corso degli anni novanta, iniziò più pressante il tentativo di trovare una soluzione di pacificazione dell’Intifada e più in generale al conflitto israeliano-palestinese, punto nodale della strategia USA di creazione del Nuovo Ordine Mondiale in Medio-oriente.
La cacciata dal sud del Libano dell’esercito Israeliano nel maggio del 2000, dopo una quasi ventennale resistenza armata iniziata dopo l’invasione Israeliana nel ’82, la crescente insofferenza nei confronti dei contingenti e delle infrastrutture logistiche americane nell’area, specialmente negli stati che sono tradizionali alleati degli Usa, come l’Arabia Saudita e gli emirati della penisola arabica, o i nuovi alleati come l’Egitto, l’emergere dell’Iran come potenza d’area nel corso degli anni ’90, la politica siriana nei confronti degli oppositori ai progetti egemonici statunitensi, sono alcuni fattori importanti di un quadro in trasformazione, in cui gli interessi del polo imperialista europeo sono le basi materiali del possibile conflitto interimperialista.
La “Road Map” caldeggiata dagli Stati Uniti, con l’ipotetico appoggio dell’Europa e della Russia, era propedeutica all’invasione degli Usa e degli alleati nel Golfo, in quanto la strada per Baghdad passava necessariamente da Gerusalemme.
L’Iraq, che dal 1972-1975 aveva nazionalizzato la propria industria petrolifera era stato uno strenuo oppositore, a fine anni ottanta inizio anni ’90, all’interno dell’OPEC della politica di svendita di grandi quantità di greggio, praticata e caldeggiata dal Kuwait e dagli Emirati Arabi Uniti. Insieme alla Siria e all’Egitto era stato la culla del pan-arabismo socialisteggiante e teatro di grandi sommovimenti sociali già dalla fine della prima guerra mondiale, con un radicato ed efficiente partito di quadri politico militari usciti dalla rivoluzione e formatisi durante il conflitto con l’Iran, era uscito dal conflitto con questo ultimo enormemente rafforzato sul piano della propria potenza militare e costituiva l’unica seria minaccia per Israele nell’area, anche per la sua netta opposizione alla politica di trasferimento forzato dei palestinesi dei Territori Occupati in Giordania.
Usa e alleati crearono un ponte aereo per trasportare 60.000 uomini e mezzo milione di tonnellate di materiali, poi altri 200.000 uomini e un altro milione e mezzo di tonnellate di materiali, installandoli permanentemente nell’area.
La prima guerra del Golfo, l’embargo e le varie restrizioni imposte dagli USA e sottoscritte dall’ONU, il suo isolamento internazionale, avevano preparato la strada per la soluzione imperialista della Questione Iraquena, propedeutica alla soluzione imperialista complessiva nell’area.
Questo accordo, si parla della Road Map, avrebbe dovuto far cessare la Seconda Intifada e preparare un’ampia coalizione internazionale, incassare il consenso o quanto meno la neutralità degli stati Arabi - relegati ai margini di spettatori indifferenti incapaci di attuare anche la più innocua mossa diplomatica nel corso di tutta la seconda Intifada - incalzati tra l’altro da una situazione di crisi interna e da movimenti sociali autoctoni - , ri-parametrare le aspirazioni israeliane rispetto alle esigenze Usa di ri-organizzazione complessiva degli equilibri nell’area.
L’inizio della guerra il 20 marzo coincide con l’intensificarsi dell’attività sioniste a Gaza e nella Cisgiordania: incursioni militari con rastrellamenti, esecuzioni mirate dei quadri politici dell’Intifada, tra l’altro tra i più propensi alla collaborazione tra le forze della resistenza palestinese, l’ insediamento di nuove colonie, mentre il 1° aprile la Siria dichiara che supporterà il popolo irakeno contro l’invasione illegale anglo-americana.
La caduta di Bassora e quella successiva di Baghdad, hanno imposto manu militari in Iraq la soluzione in Palestina, la fine ufficiale della Guerra ha spianato la strada all’accordo con le borghesie arabe, compresa quella palestinese, che in colloqui di non più di quindici minuti con Bush, si affretarono a dare il loro consenso e il sostegno al Neo-Primo Ministro dell’ANP Abu-Mazen.
Dopo la fine ufficiale della guerra, gli USA, forti di una “facile” conquista ottenuta sul campo, avevano reso più pressante la minaccia ai Paesi ritenuti facenti parte dell’Asse del Male nell’area, come la Siria e l’Iran.
La tregua palestinese iniziata il ’29 giugno, durata meno di due mesi e mai rispettata da Israele è stata una conseguenza dei rapporti di forza sfavorevoli che sembravano essere stati instaurati nell’area, considerato anche che l’iniziale sommovimento sociale contro la guerra in Irak si era via via affievolito. Vi era inoltre una necessità di bilancio e di ri-organizzazione delle organizzazioni della resistenza dopo quasi tre anni di lotta intensissima: confondersi in aree densamente popolate, non usare telefoni cellulari, spostarsi a piedi piuttosto che in macchina, creare speciali squadre che stanino e eliminino i collaborazionisti con l’esercito occupante, sono alcuni accorgimenti che i quadri politici dell’Intifada stanno cercando d’attuare, così come lo sviluppo di un forte movimento rivendicativo nelle sovra-affolate carceri sioniste.
L’inizio e il consolidamento della resistenza iraquena e lo sviluppo in positivo del fenomeno delle brigate internazionali coevo alla mancata balcanizzazione dell’Irak, hanno aperto un nuovo scenario, in cui la lotta del popolo iraqueno e non solo, è speculare alla lotta palestinese e vice versa: queste possono essere i coagulanti della riscossa delle masse arabe anche contro i regimi corrotti.
Se l’imperialismo yankee aveva mostrato di perdere colpi nella gestione del dopo Afghanistan, nel fallito tentativo di Golpe in Venezuela e nella incapacità di sconfiggere la guerriglia in Colombia, ora ha mostrato le sue intrinseche debolezze sul fronte interno con la crisi economica, come su quello esterno, con l’avventura irakena.
Tornando all’inquadramento delle lotta palestinese, è necessario ripercorrere lo sviluppo della resistenza quotidiana all’occupazione, in special modo durante questo ventennio, e la maturazione, come i limiti, delle forze soggettive che operano, e hanno operato, all’interno del processo di liberazione, cercando di far precipitare le contraddizioni e di portare, in dialettica con il movimento di massa, una prospettiva strategica.
Questa, dall’altra sponda del Mediterraneo, non può che essere quella in grado di minare le basi dell’imperialismo statunitense e del suo più fedele e feroce cane da guardia nell’area, l’entità sionista, e di rifiutare l’insidiosa strategia di penetrazione del polo imperialistico europeo nella sua naturale area di espansione del “Mediterraneo allargato”.
Il ruolo del quadro politico emerso nella prima e nella seconda Intifada, le trasformazioni delle formazioni islamiche, la giustezza di una strategia di logoramento dell’apparato politico-militare dell’occupante (esercito, coloni, struttura logistica) all’interno di una multiforme guerra popolare il legame con gli altri fuochi di resistenza nel mondo arabo ed infine l’esperienza vissuta o partecipata emotivamente di larghe fette di proletariato arabo-mediterraneo emigrato nella metropoli imperialista, sono importanti per comprendere l’attuale fase della resistenza e il lavoro politico che sostanzia l’ipotesi internazionalista.
Golda Meir, ex primo ministro Israeliano, disse un giorno che i vecchi sarebbero morti e che i giovani avrebbero dimenticato, mentre il potere di trasmissione inter-generazionale di cos’era la Palestina e del patrimonio di lotte non è stato piegato nel corso degli anni, il potere della memoria vivente della resistenza, il permanere e l’inasprirsi delle condizioni di oppressione hanno fatto sempre fiorire nuove generazioni di combattenti, cresciuti nei campi profughi dei territori occupati, come in tutto il mondo, nonostante il tentativo attuale di decimazione attraverso le esecuzioni mirate e la prigionia di una parte cospicua del quadro politico della nuova Intifada e di quella precedente, e la progressiva cooptazione all’interno delle liste nere delle varie organizzazioni della resistenza, dalle sue formazioni militari, alle sue organizzazioni politiche, fino alle sue realtà socio-assistenziali.
Dietro questo ingombrante bagaglio della contro-rivoluzione preventiva, sta la necessità di isolare la lotta palestinese, impedendone la saldatura con l’espressioni più genuine dell’autonomia proletaria nella metropoli, ipotecandola alla mediazione della borghesia e dei regimi arabi più arrendevoli: la criminalizzazione dell’attività internazionalista è un dato di fatto con cui bisogna iniziare a fare i conti, che si tratti della chiusura di conti correnti che finanziano strutture assistenziali-educative-sanitarie in Palestina e nella Diaspora o dell’impossibilità di far parlare pubblicamente esponenti della resistenza.
Il fallito tentativo di far esplodere una guerra fratricida tra il popolo palestinese, speculare alla mancata “balcanizzazione” dell’Iraq, e il fronte unitario di tutte le forze della resistenza danno nuova linfa all’Intifada che non ha mai pensato di barattare il diritto al ritorno dei profughi palestinesi da Libano, Siria, Egitto e Giordania, come dal resto del mondo arabo e da tutto il globo, né di dimenticare la scarcerazione dei palestinesi che affollano le carceri Israeliane o il costante proliferare degli insediamenti colonici, punti strategici del controllo logistico-militare israeliano, perfettamente integrati nell’infrastrutture dell’occupazione.
L’attacco aereo in territorio Siriano e gli attacchi al confine egiziano nella striscia di Gaza, sono alcuni aspetti di accellerazione ed estensione israeliana del conflitto, di cui l’uccisione di quattro “diplomatici” americani nei Territori Occupati è il contro-altare da parte della resistenza araba.
Esiste una relazione “simbiotica” dell’economia statunitense e di quella israeliana, per quanto concerne in particolare l’apparato militar-industriale e il suo perfezionamento in scenari operativi di contro-guerriglia, così come per il sistema dei finanziamenti “incrociati” tra i due paesi sempre in relazione all’industria della guerra.
È grande il peso del contributo dato dall’emigrazione americana alla nuova colonizzazione a partire dalla metà dagli anni ’70 e il trovarsi negli Stati Uniti della maggiore lobby filo-israeliana, che ha un puntuale riverbero sugli equilibri politici e il sistema dell’informazione.
La funzione storica dello stato sionista nell’area è quella di avamposto permanente dell’imperialismo più forte e baluardo della contro-rivoluzione preventiva.
La secolare e indomabile resistenza del proletariato palestinese e la sua centralità per il mondo arabo, almeno dal ’48 in poi, e per la comunità mussulmana, locale ed emigrata, almeno dalla prima Intifada gli conferisce un valore strategico per la lotta anti-imperialista, in special modo per la possibilità dello sviluppo rivoluzionario sinergico nell’area euro-mediterranea.
Proletari a priori delle frontiere maledette
«Tutta la «legalità» nel Medio-Oriente è stata costruita con l’illegalità, la prevaricazione e la violenza. Le frontiere non sono che righe immaginarie che attraversano il deserto, tracciate dopo estenuanti mercanteggiamenti e continue cancellazioni, con riga, compasso e matita, in base a imperativi arbitrari dettati da calcoli economici, totalmente estranei agli interessi dei popoli, che del resto nessuno si è mai sognato di interpellare. Ma sul terreno, sono stati gli eserciti conquistatori a fissare la geometria della spartizione delle ricchezze, in una sequenza interminabile di invasioni, sbarchi, colpi di mano, interventi militari, fra immani sofferenze e perdite spaventose delle popolazioni soggette. Il cosiddetto «equilibrio» politico del Golfo Persico e di tutta la vasta regione che la circonda, è in realtà un groviglio di contraddizioni laceranti, uscite da secoli di imperialismo allo stato puro, da due guerre mondiali e dal processo di disintegrazione di cinque imperi: quello ottomano, quello zarista, quello tedesco, quello francese e quello inglese. Un groviglio che fa di quest’area la politicamente più instabile e più pericolosa del mondo, nella quale in ogni centimetro di confine è nascosta una bomba politica a scoppio ritardato» - Filippo Gaja, Le frontiere maledette del Medio Oriente (2)
La privatizzazione del suolo e la sua concentrazione in sempre meno mani, con la relativa espulsione, proletarizzazione e creazione di un esercito industriale di riserva iniziata in Palestina già sotto l’Impero Ottomano, prosegue sotto il Protettorato Inglese e s’inasprisce con l’occupazione israeliana fino alla pressoché totale distruzione dell’economia tradizionale palestinese e la sua relativa struttura sociale nei territori occupati, basata sulla coltivazione della terra, l’artigianato autoctono e un circuito commerciale locale.
Da contadino che traeva dalla terra i prodotti per la propria sussistenza, la materia prima per il proprio artigianato e per lo scambio commerciale locale, a contadino sulla via della proletarizzazione, bracciante agricolo, operaio e ‘sradicato’ della periferia urbana, protagonista della resistenza alla penetrazione sionista e della grande ribellione del ’36-’39 contro il sionismo e il governo britannico, da proletario sradicato e spossesato dei campi profughi dopo il ’48, forza-lavoro a buon mercato per i paesi del Golfo e, dopo il ’67, per Israele fino alla prima guerra in Iraq e alla prima Intifada, a proletario in esubero, che affronta una disoccupazione strutturale e margini di sopravvivenza sempre più ridotti anche a causa dei tagli dell’UNRWA, imprigionato in una periferia-ghetto, sempre più privato delle più elementari strutture socio-assistenziali come ospedali e scuole, e soggetto ad una restrizione e un controllo dei movimenti quasi assoluti dell’oggi: questa è la traiettoria della storia sociale palestinese.
Questa ‘disintegrazione’ dell’universo palestinese subisce delle accelerazioni con le guerre combattute da Israele nel corso del secondo dopo-guerra e che iniziano con la distruzione dei villaggi palestinesi, la strage e la deportazione dei suoi abitanti, l’acquisizione della struttura amministrativa dell’occupante britannico con il bene placido della comunità internazionale tutta, compreso il blocco sovietico, fatta accezione per alcuni stati arabi.
La comunità internazionale riconobbe il nascente stato sionista, prima fra tutti l’URSS di Stalin, e la sua pratica che ‘rimuoveva’ l’esistenza dei palestinesi, in termini materiali, con la pulizia etnica delle bande sioniste che hanno una strategia chiara difendere i territori concessi dal piano di spartizione e conquistare con il terrorismo, anche quello precedentemente blandamente condannato, il più possibile.
La ‘rimozione’ della pluri-secolare presenza palestinese avviene negando contemporaneamente l’esperienza ebraica della diaspora, in cui la storia ancestrale del “popolo ebraico” viene saldata, con un spericolato salto temporale, con l’impresa sionista, sfruttando ad hoc l’esperienza dell’Olocausto, non facendo emergere i mercanteggiamenti dei futuri padri Fondatori con le potenze imperialistiche, tra cui il regime nazista, visto positivamente e imitato dalla corrente revisionista del ‘sionismo’, uscita sconfitta tatticamente a causa della debacle delle potenze dell’asse, ma riassorbita nella pratica dal processo di costruzione dello stato sionista.
Golda Meir, primo ministro Israeliano dal ’69 al ’74, dichiarò ad un giornale britannico nell’estate del ’69: «non esistono cose tipo i palestinesi. Quando c’è mai stato un popolo indipendente con uno stato palestinese? Non ha senso l’idea secondo cui in Palestina c’era un popolo palestinese che si considerava come il popolo di Palestina; che noi siamo arrivati, li abbiamo cacciati e preso il loro posto. Loro non esistono.»
Certamente Golda Meir, già artefice degli accordi segreti con Re Hussein di Giordania per la spartizione della Palestina poco prima del primo conflitto arabo-israeliano, si adoperò per cancellare la presenza palestinese sulla faccia della terra iniziando la politica delle uccisioni mirate fuori di Israele con l’omicidio a Beirut del poeta palestinese Ghassan Kanafani, responsabile culturale del FPLP nel luglio del 1972 e dopo l’azione di Settembre Nero a monaco, promuovendo la caccia all’arabo in tutta Europa, giungendo a dire, poche settimane prima dell’omicidio di Wael Zuatier a Roma nell’ottobre dello stesso anno che: « la resistenza palestinese sarebbe stata colpita ovunque».
L’eco che ha nel mondo arabo la tragedia palestinese e l’impulso che dà alla nascita del movimento dei nazionalisti arabi, con le prime azioni di guerriglia contro i governi arabi che avevano firmato la pace, legittimando lo status quo nell’area e contro le istituzioni dell’ONU che si premuravano di assicurare una esistenza di profughi a vita per gli sfollati dai villaggi, ne fanno il cuore pulsante della lotta araba e il centro del conflitti arabi palestinesi dell’area.
Il Movimento dei Nazionalisti Arabi, che vede tra i suoi fondatori e protagonisti Georges Habache, attraverso le colonne della rivista Ath-tha’r (La vendetta): si sforzò «di creare nei palestinesi uno spirito di resistenza a qualsiasi programma concepito per il miglioramento delle condizioni di vita dei rifugiati. Categoricamente opposto al progetto presentato dalla «missione economica dell’ONU» mandata in medio oriente e diretta dall’americano Gordon Gulb che, all’inizo del 1950, aveva preparato un programma dettagliato per il soccorso dei rifugiati e per uno sviluppo generale nei diversi paesi arabi a profitto dei rifugiati palestinesi» (3), si oppose a tutti i progetti imperialisti o dei regimi arabi di pacificazione della situazione medio-orientale.
Gli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale sono anni di fermento sociale che sboccano in processi di de-colonizzazione e tentativi di penetrazione imperialista, che hanno come base comune, da promuovere o da emarginare, l’ipotesi pan-araba, che a seconda dei soggetti che agirono nei differenti contesti assunse un profilo e aspirazioni di classe più o meno marcate all’interno del travagliato percorso delle singole rivoluzioni nazionali.
La nascita della guerriglia palestinese è caratterizzata da un precedente clima di effervescenza che già dagli anni ’50 trova nell’esempio algerino un modello e una base d’appoggio e una legittimazione e un supporto internazionale (Cina, Vietnam, Corea del Nord) e poi nell’Egitto di Nasser una sponda e una speranza, che deve trovare da subito una sua autonomia organizzativa e una convergenza delle anime politiche che attraversavano la diaspora palestinese: la liberazione della Palestina con la lotta armata, segna una linea di demarcazione precisa e connota specificatamente la nascita di Fatha e la successiva trasformazione-evoluzione del Movimento dei Nazionalisti Arabi nel Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, mentre la creazione dell’OLP nel ’64 a opera della Lega Araba su iniziativa egiziana è il tentativo più evidente di canalizzare e istituzionalizzare sotto la cappa protettiva dei regimi arabi la lotta palestinese: tutela che entrerà in crisi dopo la sconfitta del ’67 e si consumerà con la cacciata militare di Fatha dalla Giordania4.
La battaglia di karameh, in cui i palestinesi, non disponendo della capacità di fuoco paragonabile né agli israeliani né a quella degli altri stati arabi, saranno i primi a opporre una strenua resistenza all’esercito sionista dopo la disfatta araba nel giugno del ’67, sarà conosciuta mondialmente attraverso le foto dei carri armati sionisti abbandonati e darà un impulso fortissimo alla generazione di palestinesi per entrare nelle file della resistenza.
Quando poi, con l’azione di Settembre Nero a Monaco, e l’inizio delle azioni di dirottamento da parte del FPLP, La Palestina divenne «corpi che si muovono nelle strade del mondo», come scrisse Mahmud Darwish nel ’72, questo popolo scacciato dalla propria terra e dalla Giordania, diventerà un riferimento internazionale per le forze rivoluzionarie di tutto il mondo.
Note
1) Per lo storico “revisionista” israeliano Benny Morris, 13.000 palestinesi vennero uccisi, su una popolazione di circa un milione di persone 750.000 divennero profughi, 418 villaggi vennero cancellati dalla faccia della terra, sostituiti e rinominati entro il 1950, in due soli anni, da 161 insediamenti ebraici.
Lo storico palestinese Salman Abu Sitta sostiene che I villaggi erano 531 e di ognuno ha indicato le ragioni dell’abbandono: gli abitanti di 122 centri furono espulsi dalle forze ebraiche, 270 furono abbandonati a causa delle truppe sioniste, 38 perchè temevano gli assalti, 49 a causa della caduta in mani ebraiche dei villaggi vicini, 12 in seguito alla guerra psicologica condotta dagli israeliani, sei per ordine dei militari arabi. In 34 villaggi non si conoscono le ragioni della fuga dei loro abitanti.
2) Edito da Maquis Editore nel febbraio 1991
3) B. Al Kubeissi, Storia del movimento dei Nazionalisti Arabi, Jaka Book, 1977
4) Per una migliore descrizione della nascita e lo sviluppo delle organizzazioni della Resistenza, rimandiamo all’articolo sul prossimo numero della rivista. In ogni caso è un ottimo riferimento: Testi della rivoluzione palestinese 1968-76, OLP; Al Fatha; FPLP; FDPLP, Bertani editore, Verona, 1976.