SENZA CENSURA N.14

GIUGNO 2004

 

Da un brigante metropolitano

Intervento fatto pervenire da un compagno italiano "esule".

 

Sabato 22 maggio si è svolto a Torino, all’Alcova occupata, un dibattito sull’estradizione dei rifugiati italiani in Francia nel quadro più ampio del mandato di cattura europeo e dell’attuale situazione repressiva. Nell’occasione si è parlato anche delle condizioni drammatiche dei prigionieri di Action Directe, ripercorrendone brevemente la storia. Per l’incontro, organizzato dal centro di documentazione Porfido, un compagno italiano che vive da anni in Francia ha mandato un contributo, che pubblichiamo assieme al testo di presentazione dell’iniziativa.

CONTRO LE ESTRADIZIONI
La recente richiesta di estradizione per Cesare Battisti, ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo esiliato in Francia, ha fatto notizia.
Questa richiesta si aggiunge a numerosi altri arresti di ex appartenenti a gruppi armati degli anni settanta e avviene in un clima di militarizzazione dell’intera vita sociale, trasformata in un fronte interno in cui “terrorista” diventa chiunque non accetti supinamente l’ordine dello Stato e della Proprietà.
L’Unione Europea mostra così il suo vero volto – campi di concentramento per migranti, nuove carceri, videosorveglianza, mandati di cattura – abolendo effettivamente le frontiere soltanto per la merce e per la polizia.
Se in Francia finora ad opporsi all’estradizione è stato soprattutto l’ambiente di intellettuali e scrittori di sinistra (i quali peraltro sembrano non aver memoria per gli ex guerriglieri di casa loro, letteralmente seppelliti nelle galere della Sacra Repubblica), e questo anche per le prese di posizione tristemente rinunciatarie e democratiche di molti degli esuli interessati, ciò non può far perdere di vista l’importanza di opporsi a quest’attacco. Esso infatti non è soltanto un mero atto poliziesco, è lo stesso fondamento etico della rivolta, con tutte le sue armi, ad essere messo sotto accusa. Al delirio securitario che vorrebbe eternizzare il presente, si affianca una polizia della memoria che vorrebbe rinchiudere dietro le sbarre un passato ancora esplosivo.
Noi, ad esempio, non abbiamo nessuna intenzione di abiurare un conflitto sociale tutt’altro che concluso.
Mistificare e imprigionare la storia di quell’assalto al cielo è per il dominio fondamentale. Fondamentale è dunque, dall’altro lato della barricata, difendere quell’assalto, in quanto patrimonio dell’esperienza proletaria e in quanto le ragioni per insorgere non hanno fatto che aumentare.
Ciao a tutti/e.
Fa piacere di questi tempi, visto lo stato attuale della repressione che gli Stati europei sciorinano sull’insieme del sociale, sapere che c’è ancora chi s’interroga su come far faccia all’intento di azzeramento delle conquiste rivoluzionarie e proletarie che in questi trent’anni hanno fondato e sfondato i principi stessi dell’intendimento di UN ALTRO MONDO.
Fa piacere soprattutto sapere che questo desiderio “nasce” e “si nutre “ da un evento come quello dell’attualità delle estradizioni dei fuoriusciti italiani degli anni 70 ed in primo luogo quella dell’ex militante dei Pac (Proletari armati per il comunismo) Cesare Battisti; non che la cosa in sé abbia una grande ascendenza ma è il fatto di vedere dietro queste apparenze il nodo fondamentale ed essenziale dell’attacco repressivo che lo stato cerca di esercitare sulla globalità della storia del sociale rivoluzionario e di ...OPPORVISI!
Penso che sia evidente per tutti che dopo l’11 settembre l’aria mefitica del capitalismo è diventata irrespirabile più del dovuto per le lotte sociali e rivoluzionarie del mondo intero; per la prima volta il dominio capitalista americano si è sentito vulnerabile nella guerra d’interessi intercapitalistici e non solo perché si è trovato impotente contro gli attacchi portati dall’esterno ma anche perché scoperto di fronte alle possibilità di attacchi che si sviluppano al suo interno.
La rideterminazione del nuovo concetto di “terrorismo” è stata una delle prime risposte/controtendenze che il capitalismo a dominazione mondiale ha opposto alle sue contraddizioni intrinseche di modello di sviluppo. L’estensione di questo concetto all’insieme delle espressioni di rivolta sociale e rivoluzionaria, oltre che a cercare di parare la crescita sempre più radicale della resistenza al suo sistema (che si esprime ed evince nelle miriade di lotte che investono il sociale e la società stessa), opera affinché anche la memoria di questa radicalità sia occultata, messa al bando, criminalizzata, io direi anche terrorizzata.
Eh già la memoria, cari compagni!
La memoria radicale del passato, ma anche quella del presente!
A quest’ultima preferirei dare più ampio spazio perché penso che sia quella più sottoposta ad una repressione di azzeramento passando attraverso lo stillicidio di inchieste e incarcerazioni, anche perché più grande è il rischio per questa memoria di non trovare, a fronte della repressione, un suo spazio sociale di attualizzazione. Ma della memoria in generale non credo sia possibile oggi tracciarne il senso: una parte di essa è ancora prigioniera del ricatto della carcerazione; alcuni parlano di memoria del passato riferendosi agli anni 70, altri sostengono che la memoria di quegli anni si è trasformata in quella del ventunesimo secolo prendendo da questa assimilazione le dovute ricchezze e miserie di un’esperienza che non ha ancora detto la sua.
Nel quadro della vostra iniziativa contro le estradizioni, mi permetto di inviarvi un mio piccolo intervento (vista l’impossibilità di essere presente) soprattutto su questo terreno: dall’altro lato della barricata difendere quell’assalto, in quanto patrimonio dell’esperienza proletaria e in quanto la rabbia per abbattere lo stato di cose presenti non ha fatto che aumentare.
In questi ultimi anni ho seguito per quanto mi è stato possibile (vista la mia condizione di fuoriuscito) le vicende e le lotte carcerarie della penisola. So che in Italia da ben più di qualche anno il circuito della differenzazione della pena contempla nel suo più alto indice di deterrenza l’articolo 41 bis... Memoria, Remember.
Nel luglio del ‘77 nell’Italia democratica, settima potenza economica nel mondo, primo partito comunista europeo (dopo evidentemente i sovietici), scatta “l’operazione Camoscio”, vale a dire l’apertura dei carceri di Trani, Favignana,Fossombrone, Cuneo, Asinara, Pianosa, Termini Imerese, Nuoro, carceri a regime speciale, cioè sottoposti all’articolo 90, un nuovo circuito di detenzione all’interno dell’inferno penitenziario italiano; supervisionato dall’allora generale dei carabinieri Dalla Chiesa e tacitato dall’intero staff dell’amministrazione carceraria, l’articolo 90 era un trattamento a cui erano sottoposti tutti i militanti rivoluzionari e le cosiddette avanguardie di lotta interne ed esterne del proletariato prigioniero. Di questo circuito personalmente ho fatto molte tappe (nella prosecuzione dell’attacco controrivoluzionario il circuito si allargò con l’apertura del primo carcere speciale femminile –quello di Voghera, un vero gioiello di tecnologia per annientare le militanti rivoluzionarie in esso rinchiuse – e di quello di Novara) e posso dire che mai pagina di memoria più bella è stata scritta da quei momenti di lotta dell’esperienza vissuta nel carcere dell’Asinara conclusasi con la rivolta dell’ottobre 79 e la relativa distruzione del carcere a colpi d’esplosivo.
Il supercarcere dell’Asinara, sotto la superguida del generale Della Chiesa, era già operativo dal gennaio ‘76; in esso vi erano rinchiusi tutti i militanti dei NAP (Nuclei Armati Proletari), un’esperienza di lotta che inquietava non poco i centri del potere capitalistico, visto che, partendo dalle realtà sociali come il precariato e l’emarginazione, si era autorganizzata ed attaccava i centri repressivi del più alto controllo e annientamento dell’antagonismo radicale: carceri e manicomi! Per un anno (i compagni dei Nap vi furono spediti dopo la chiusura del processo di Napoli che si tenne nel ‘76) questo carcere ha funzionato come anticamera sperimentale sui compagni e anteprima dell’operazione massificata del ‘77.
All’Asinara devo dire che ero arrivato nel periodo in cui un lungo e duro ciclo di lotte dei prigionieri e non solo (anche il movimento esterno sardo in eco alle lotte di questi ultimi manifestava di frequente la sua solidarietà attraverso azioni e grosse manifestazioni) aveva strappato alcune conquiste che permettevano all’insieme di meglio sopportare le dure condizioni di detenzione.
Con l’apertura del circuito speciale in quanto prigionieri ci siamo ritrovati di un sol colpo privati de cosiddetti “diritti’. In quanto detenuti speciali e sottoposti all’articolo 90, eravamo privati di colloqui diretti; infatti chiunque volesse vederci non poteva farlo che attraverso un vetro blindato fino al soffitto, munito di un citofono; lettere solo ai parenti stretti in numero di due al mese, con censura, una sola lettera al mese per le esigenze giuridiche; due ore d’aria al giorno; una doccia a settimana; limiti di acquisti allo spaccio interno; limiti nel possesso di vestiti.
Ma la perla dell’articolo 90 era che ogni prigioniero doveva essere solo in cella, quindi, a parte qualche cella comune con tre letti, l’isolamento cubicolare era di regola.
Dicevo che ho seguito e seguo le vicessitudini del carcere in Italia, ho seguito il ciclo di lotte ultime in cui in prima linea ho avuto l’impressione vi fossero i proletari immigrati. Ben evidentemente so che in Italia in questi ultimi 20 anni il carcere, la sua composizione di classe, le sue espressioni di lotta sono cambiate, ma dal poco che ho potuto osservare e capire, durante questi cambiamenti, c’è un’assenza, una mancanza primordiale, fondamentale affinché le lotte possano avere un qualche respiro: l’appoggio esterno!
Nell’Italia degli anni ‘77-’83 le lotte nelle carceri speciali erano si può dire un leit-motif della condizione dei prigionieri. L’articolo 90, nel dispiegamento della sua strategia, si palesava sempre di più come un vero programma di annientamento psico-fisico nei confronti dei prigionieri da parte dello Stato. Da Favignana a Cuneo la penisola era attraversata da un fermento di rivolta all’articolo 90 e non vi era giorno in cui ora in un carcere ora in un altro non si segnalassero movimenti di lotta. Uno degli assi portanti di queste lotte era il colloquio con i vetri: i prigionieri/e si opponevano in quanto anche l’ultima parvenza di contatto umano fuori dall’inumanità delle mura era precluso. In questa rivolta, all’epoca i detenuti trovarono eco nei propri cari: amici, compagni, fratelli, sorelle, madri, padri, nonne ecc.! Per eco si deve intendere che queste persone, al di là del loro naturale legame di solidarietà familiare, hanno rimandato attraverso il loro appoggio attivo alle lotte dei prigionieri una presa di coscienza ed un’assunzione di legame con la rivolta di questi ultimi.
All’epoca nelle carceri speciali sottoposte all’articolo 90 i prigionieri/e, anche se andavano al colloquio con i vetri, dovevano sottomettersi ad una perquisizione integrale, vale a dire nudi; in alcuni di questi carceri (dove il rapporto di forza tra custodia e prigionieri/e non si era ancora determinato) bisognava sottomettersi ad un’umiliazione totale, cioè flettersi e tossire; stessa cosa subivano i parenti: all’entrata dovevano sottomettersi ad una palpazione da parte di una secondina, e spesso accadeva che per sospetto o per prevaricazione domandavano a qualche madre, sorella, compagna, di spogliarsi nuda fino ad arrivare a pretendere un trattamento umiliante come quello verso i prigionieri. All’inizio credo che tutti/e accettassero queste imposizioni spinti dall’amore di rivedere i propri cari imprigionati (anche se spesso queste loro accettazioni erano vanificate dai contesti di lotta dei prigionieri, come ad esempio lo sciopero dei colloqui o le azioni di rottura dei vetri), dopo penso che la paura abbia fatto posto ad una presa di coscienza di doversi battere per non subire passivamente – e lo hanno fatto eccome, all’epoca, i comitati dei familiari e amici dei prigionieri politici.
Una presa di coscienza pari ad un’epidemia. Dappertutto, a Napoli, Milano, Roma, Torino, Genova familiari ed amici – spesso autonomamente, qualche volta in legame con scadenze di lotta dei prigionieri – hanno preso iniziative di lotta e rivendicazione in favore di questi.
Ho voluto parlarvi di questo aspetto degli anni 70 perché è stato uno dei fattori primordiali a far sì che le lotte dei prigionieri/e non restassero rinchiuse nel silenzio della repressione statale. Molte delle conquiste carcerarie di quegli anni furono rafforzate grazie alla solidarietà attiva dei collettivi esterni di parenti e amici; oggi, osservando che in Italia le carceri speciali e l’articolo 90 hanno mutato la loro fisionomia con l’articolo 41 bis e i triplici livelli di trattamento, credo che le lotte di resistenza messe in atto dai prigionieri/e manchino di questo apporto, di questo legame con il sociale esterno, ed in ciò credo stia tutta la debolezza per un reale cambiamento delle condizioni di prigionia in vista della distruzione di ogni carcere.
Le lotte dei prigionieri sussistono, come la lotta di classe, sempre e comunque, ma il ciclo infernale del loro isolamento può essere rotto solo da una rete esterna che lo amplifichi e lo fondi nella totalità dell’antagonismo proletario. Un prigioniero di quegli anni ha scritto un libro avvalendosi del contributo di quegli uomini e donne che tanto incisero sullo sviluppo dei nuovi rapporti di forza all’interno del circuito carcerario dell’epoca; il titolo del libro è Dall’altra parte, opera di Prospero Gallinari. Opera importante, indipendentemente dalle posizioni attuali del suo autore.

Un abbraccio a tutti/e
Un Brigante Metropolitano



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