SENZA CENSURA N.18

NOVEMBRE 2005

 

Editoriale

 

«Per il momento il movimento rivoluzionario nelle metropoli non ha potuto né saputo rischiarare gli orientamenti di una nuova offensiva corrispondente alle dinamiche della globalizzazione e della poderosa gerarchizzazione che ne consegue. Pertanto, è nel centro che la resistenza dovrà assumere un ruolo essenziale nel suo legame con le forze popolari dei paesi del Sud e non si accontenterà di una solidarietà platonica». (Il prigioniero rivoluzionario J-M Rouillan, Risposta all’AFP, 3/10/05)

A livello internazionale, non vi è uno scenario di “crisi” che si apra e che presupponga un intervento militare a cui l’Italia non partecipi a tutti i livelli, mentre non vi è mobilitazione in Europa che non ponga al centro il superamento della propria condizione di precarietà.
La guerra non è solo un episodio bellico, non è il risultato della politica bellicista di un governo, non è una serie di accadimenti lontani dalla propria vita quotidiana, ma permea sempre più il tessuto sociale e diviene il collante di una comunità terribile che si tenta di intossicare con la propaganda mediatica, l’educazione scolastica, le cosiddette esercitazioni contro possibili attacchi terroristici, per spingere la popolazione verso la mobilitazione reazionaria di massa.
La guerra è lo sbocco necessario della borghesia imperialista perché lo sviluppo del capitalismo lo impone sul piano strategico ed è lo strumento principe del ri-allineamento della bilancia di potenza tra stati e poli imperialistici, così come tra la varie frazioni borghesi e il proletariato universale.
L’Italia per la sua collocazione geo-politica, il suo ruolo di punta in senso reazionario nel consorzio europeo, il ruolo che sta svolgendo nella Nato e nell’Onu si trova al centro di tale processo.
Ogni salto di qualità nell’interventismo militare oltre i confini nazionali, implica una maggiore pressione sul fronte interno al fine della pacificazione sociale e un tentativo di allineamento delle istanze politiche di opposizione all’opportunismo della sinistra istituzionale, oltre che ad un pesante giro di vite sui compagni.
Per questo, in tempi di crisi e di guerra, il conflitto spesso non assume più, agli occhi dei governanti, quel carattere fisiologico che porta le rivendicazioni ad essere recuperate in senso corporativo e settoriale, ma può assumere un carattere di diserzione al clima di guerra imposto, prefigurare un orizzonte diverso e alternativo alla difesa dell’esistente, quell’un-altro-mondo-è-possibile che alberga nel cuore di molti....
Lo scontro di classe può esprimere non solo una contraddizione tra piano del Capitale e interessi immediati del proletariato, ma «rischiarare gli orientamenti di una nuova offensiva» se le forze soggettive della rivoluzione, che hanno lavorato con metodo e costanza, sanno raccogliere e stimolare le istanze più avanzate della lotta e divenire schegge appuntite della deflagrazione sociale.
O il lavoro di relazione, sostegno, inchiesta, circolazione con le lotte e i suoi protagonisti, fa suo questo orizzonte, sedimentando un bagaglio di esperienze che esprime un avanzamento dei livelli di organizzazione diretta di classe e mira a coprire il vuoto di rappresentanza politica del proletariato metropolitano, oppure saremo condannati a fare una fotografia della realtà in movimento o tutto al più a muoverci sull’emergenza non tanto dei cicli di lotta, ma delle singole vertenze che si aprono, e si chiudono, inseguendo i soggetti coinvolti, piuttosto che anticipare e seguire il corso dello scontro di classe delle cittadelle occidentali.
Tra l’altro gli squarci di luce delle singole lotte inibiscono una corretta messa a fuoco delle medesime, spingendoci tal volta ad una rappresentazione falsante di queste, e non danno nemmeno il tempo di dissotterrare le asce di guerra necessarie all’ostilità mostrata dal nemico di classe.
La rottura della gabbia corporativa e la tendenziale emarginazione dell’istanze opportuniste in seno alla classe non sono un processo automatico dell’inasprirsi delle contraddizioni in tempi di crisi, ma un prodotto del lavoro di massa dei compagni e delle indicazioni che vengono dall’azione dei rivoluzionari, nonché dalla loro capacità di denuncia e tenuta di fronte al tentativo di logoramento, in alcuni casi di annientamento, portato avanti dalla contro-rivoluzione.
Nei paesi imperialisti, lo stato lavora incessantemente affinché porzioni di proletariato non diventino una massa critica dal punto di vista politico: classe contro classe, non si leghino cioè a quelle soggettività che hanno come prospettiva la radicale trasformazione degli attuali rapporti sociali e non si saldino a quelle esperienze che mettono in discussione i piani dell’imperialismo nella periferia integrata.
Lo stato rovescia, tra l’altro, nel conflitto con il proletariato metropolitano tutto il suo ingombrante arsenale legislativo: l’incubo della classe dominante è che la lotta dei dominati incontri le modalità con cui si è storicamente consumata la rottura rivoluzionaria nel centro imperialista e che il costante tentativo di desolidarizzazione venga vanificato dalla solidarietà di classe tra sfruttati di ogni latitudine.
La mortifera simbiosi tra le esperienze gestionali del conflitto sociale entro i confini nazionali e le occupazioni militari a cui contribuisce nei Balcani, in Afghanistan, in Irak e ora in Sudan, è uno degli aspetti del grado di “maturità” dello stato imperialista italiano.
Una importante frazione della borghesia, dal suo canto, adotta già a tutto campo il paradigma della “lotta al terrorismo” nella sua prassi, e ne fa uno dei corollari ideologici per giustificare la propria azione e farci assuefare alla catastrofe, che si tratti della sua opera eco-terrorista, delle conseguenze della propria pratica bellicista nei paesi dipendenti, dello schiacciamento delle lotte operaie, del tentativo di annientamento dei rivoluzionari prigionieri nelle carceri, della politica segregazionista condotta nei confronti degli immigrati.
Su chi va considerato “terrorista” e quali atti siano tali e sul concetto di “terrorismo” in quanto tale, gli orientamenti politici, i codici legislativi e la pratica repressiva esprimono ogni giorno la loro costante ri-attualizzazione, facendo riecheggiare le parole di Ernst Bloch: «L’abisso in cui si precipita mediante l’insopportabile pare non avere fondo alcuno su cui sfracellarsi e arrestare la caduta».

Vi è con un costante tentativo di cooptazione di sempre più ampie fasce del proletariato nei piani di gestione dell’ordine pubblico e contemporaneamente nella militarizzazione di porzioni di lavoratori salariati.
In alcune aziende di trasporto, i controllori sono responsabili dei rastrellamenti degli immigrati, mentre gli autisti guidano mezzi di trasporto in cui vengono stipati durante i rastrellamenti, così come i piloti guidano gli aerei sui quali vengono successivamente deportati.
La militarizzazione dei Vigili del Fuoco rappresenta uno dei perni per la creazione di una difesa civile complementare agli apparati preposti al controllo sociale e alla repressione, e le loro lotte contro questo processo rappresentano un’importante risposta.
In Italia e in Europa, chiudono sempre più siti produttivi o sono pesantemente ristrutturati comparti del settore manifatturiero, senza che vengano assicurati ai lavoratori sufficienti ammortizzatori sociali - talvolta neanche la liquidazione! – o prospettati dei canali di nuova collocazione nel mondo del lavoro, mentre l’apparato militare industriale, che rifornisce l’esercito italiano e non solo, prospera e mette al lavoro sempre più i cervelli formati, o in via di formazione, nell’università.
Le tradizionali politiche di assistenza di stampo “welfarista” vanno riducendosi e assumono sempre più un aspetto selettivo, premiale e ricattatorio, quando non assumono un carattere che prepara il terreno per l’azione vera e propria delle forze dell’ordine. Questo ultimo é il caso di alcuni profili di salariati del cosiddetto settore sociale che lavorano con le “fasce disagiate”, in grado di penetrare in ambienti difficili da scandagliare e capaci di svolgere, a loro insaputa, un accurato lavoro di “schedatura” tra coloro che sono destinati a vedere il proprio disagio sociale divenire potenziale profilo criminale, oppure ad essere sottoposti ad una preventiva psichiatrizzazione con relativo abuso farmacologico.
Il complesso carcerario allargato si estende e si differenzia, moltiplicando le figure che vedono il loro salario legato all’espletamento di una mansione all’interno di questa “costellazione concentrazionaria” fatta di minorili, CPT, prigioni private per “tossicodipendenti”, istituti psichiatrici, oltre che a carceri vere e proprie.
Le stesse scuole sono sempre più un ibrido tra un carcere, una azienda e una istituzione totale preposta al lavaggio del cervello, sono luoghi annichilenti dove si cerca di sradicare qualsiasi curiosità intellettuale e desiderio di sviluppo di capacità, anche in questo caso i lavoratori della scuola sono soggetti al tiro alla fune tra coloro che si muovono per la sua trasformazione in un senso ancora più reazionario e coloro che lottano contro il suo ulteriore peggioramento.
La possibilità di non farsi Stato inizia per alcune porzioni di salariati con la negazione del proprio ruolo e la prefigurazione di una attività umana slegata da questa organizzazione sociale, mentre per altri sta nel non accettare le briciole che ci dispensano come se fosse il grasso-che-cola, frutto in realtà della politica di morte e distruzione condotta nei confronti dei “dannati della terra” dei paesi dipendenti.

Il collettivo che pubblica Senza Censura e che cura il sito omonimo www.senzacensura.org lavora affinché la crisi del capitalismo diventi una occasione per mettere in crisi gli attuali rapporti di produzione, cioè per la maturazione delle condizioni soggettive della rivoluzione nella metropoli imperialista, di cui l’autonomia del pensiero e della prassi del proletariato metropolitano sono il motore.
La guerra e la repressione, la precarietà e il carcere sono delle contraddizioni principali su cui è centrale la determinazione dei piani di intervento che non possono che essere l’internazionalismo proletario al fianco dei popoli in lotta, il rifiuto di essere variabile dipendente dello sviluppo del capitalismo, la radicale ostilità alla necessità del carcere in tutte le sue forme ed espressioni.
La nostra attività soggettiva è tesa a promuovere le espressioni dello scontro di classe che si muovono in questa direzione, così come il contesto in cui si esprime.
Più che fare una fotografia in movimento dell’esistente, ci adoperiamo a disegnare i contorni in cui si prefigura la lotta del proletariato e “i volti di Giano” che assume il nemico di classe.
Se una rivista ed un sito possono dare un contributo di approfondimento, di dibattito e di orientamento, la pratica e lo sviluppo organizzativo ne sono lo sbocco naturale per approfondire le crepe dell’attuale sistema e far maturare la coscienza della necessità di una differente organizzazione sociale, perché come già scriveva un acuto osservatore del suo tempo: «i borghesi sopravvivono a se stessi come spettri annunciatori di sventura».
Ci preme in particolare sottolineare come al di là delle scelte politiche contingenti e dell’alternarsi delle maggioranze governative, vi siano caratteri strutturali e scelte obbligate della politica istituzionale, per cui proprio sui temi che abbiamo elencato, e su cui andiamo a dar battaglia, le differenze, quando ci sono, sono solo sfumature.
Se si vuole seriamente togliere le lenti deformanti dell’opportunismo, bisogna cooperare facendo si che questa certezza si radichi nei protagonisti delle lotte attuali e future.



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