SENZA CENSURA N.19
marzo 2006
Orario di lavoro? Flessibile!
Note sulla riforma dell’orario di lavoro
La recente vertenza contrattuale che ha
riguardato più di unmilionecinquecentomila lavoratori del settore
metalmeccanico ha fra i suoi punti più importanti e di scontro la questione
della regolamentazione dell’orario di lavoro.
Da una parte la Federmeccanica vuole imporre una ulteriore flessibilizzazione
della gestione delle ore di lavoro, dall’altra i lavoratori cercano di
tamponare l’arroganza padronale che negli ultimi vent’anni, anni di debolezza
del movimento operaio, ha progressivamente eroso sia le conquiste dei
lavoratori che peggiorato le condizioni generali di lavoro in tutti i campi,
da quello normativo a quello salariale a quello del tempo di lavoro.
La riforma dell’orario di lavoro non riguarda solo l’Italia ma tutti i paesi a
capitalismo avanzato e nello specifico, all’interno della definizione e
formazione del polo imperialista Europeo, si tratta di identificare quale
linea imporre come paradigma generale al quale poi i singoli Stati-nazione
devono attenersi predisponendo delle norme attuative che rispecchino le
direttive comunitarie.
È chiaramente importante evidenziare come tutte le condizioni legate
all’organizzazione del modo di produzione, e nel nostro specifico del
capitalismo, siano direttamente legate al livello di scontro e di potere fra
le classi e nello specifico dai rapporti di forza che il proletariato
attraverso l’organizzazione e la lotta riesce a conquistarsi ed a imporre.
La durata del lavoro costituisce una competenza comunitaria stabilendone una
gerarchia, infatti è la legge europea a dominare sulle differenti leggi
nazionali. La gestione dell’orario di lavoro è attualmente argomento di
definizione da parte dei vari organi della Comunità Europea con diversi punti
di vista che rispecchiano sia le realtà politiche e culturali dei diversi
paesi che compongono l’UE sia la maggior o minore influenza che il movimento
dei lavoratori ha in questi paesi.
Occorre precisare come sia ormai del tutto superato e obsoleto riferirsi alla
giornata lavorativa di otto ore e prendere come parametro di misura la
settimana di 40 ore lavorative; ormai punto di riferimento di ogni confronto
diventano le 48 ore settimanali con tutte le diverse varianti che vedremo in
seguito. A livello comunitario, attualmente, possiamo definire due posizioni
generali: quella del Consiglio europeo che è del parere che il lavoratore
possa rinunciare al diritto di non lavorare, mediamente, per più di 48 ore
settimanali, mentre il Parlamento europeo che è del parere opposto.
È comunque da evidenziare e sottolineare come in entrambi i casi si parli di
medie che ormai non considerano più come parametro di riferimento la settimana
ma, la discussione oramai verte se tale media di 48 ore settimanali debba
essere calcolata su un periodo di 4 mesi o su 12 mesi, e questo in entrambi i
casi in risposta alle esigenze padronali di sempre maggiore flessibilità. Il
calcolo su 12 mesi potrebbe significare, ipotizzando un caso limite, che un
lavoratore potrebbe ritrovarsi a lavorare 6 mesi per 76 ore a settimana e i
rimanenti 6 mesi per 20 ore.
Anche a livello europeo nella formulazione delle linee direttive sull’orario,
centrale nella discussione è rispondere alle esigenza dell’attuale realtà
lavorativa, che vede una fetta sempre maggiore di persone alternare periodi di
lavoro a periodi di disoccupazione o “inattività” conseguenza del grande
utilizzo di contratti precari. È in questo contesto che viene discusso se il
periodo definito “inattivo”, durante il quale il lavoratore si rende
disponibile a fornire la prestazione lavorativa, debba essere o no considerato
periodo lavorativo.
Come punto principale comunque delle direttive europee sta la possibilità di
utilizzo del cosiddetto “opting out” cioè quel regime che consente attraverso
la gestione ormai individuale con il lavoratore di stipulare un accordo che
non limita la settimana lavorativa ad un massimo di 48 ore nonché quella di
estendere da quattro mesi a un anno il periodo su cui calcolare le stesse 48
ore settimanali. L’opting out o rinuncia volontaria chiesto dal Regno Unito ed
adottato nel 1993 al momento di definire la prima versione della normativa
comunitaria consiste nella possibilità per un lavoratore di decidere se
intende rinunciare al limite massimo di ore settimanali. Sono stati stimati in
circa 5 milioni i lavoratori britannici che hanno firmato l’opting out ma di
questi più della metà è stato circuito da un uso ingannevole della propaganda
sull’argomento, mentre un’altra parte consistente è stata costretta a firmare
sotto la minaccia di perdere il contratto di lavoro.
La Commissione europea si è mossa per modificare alcuni punti della precedente
direttiva sull’orario legiferando (2003/88/CE) in modo da permettere in tutta
Europa di aumentare ulteriormente gli orari di lavoro, la flessibilità
selvaggia e di pagare meno i lavoratori aumentando l’intensità del lavoro. Si
è proceduto in un tempo breve a rimettere mano ad una normativa di recente
attuazione raccogliendo così le ulteriori indicazioni dei padroni e
riaffermando il principio che sui diritti sociali l’UE oggi legifera partendo
dai livelli più bassi possibili. Vengono in pratica indicate in 48 le ore di
lavoro per un periodo di 7 giorni, cioè viene prevista la possibilità di
lavorare per un totale di 2304 ore all’anno. Ore che possono essere disposte
in modo flessibile sui 12 mesi, viene previsto il rinvio alla contrattazione
nazionale, che però esiste solo in Italia e in Germania, mentre negli altri
paesi si contratta azienda per azienda o per figure professionali. Il
lavoratore a titolo individuale può però acconsentire a deroghe sull’orario
massimo fino a 65 ore di lavoro in una settimana qualunque e questo accordo ha
validità di un anno.
In Italia le direttive comunitarie relative all’orario di lavoro n. 93/104 e
n. 2000/34 sono state recepite con il Dlgs n. 66/2003 che ne dà attuazione in
materia di orario normale di lavoro, di durata massima dell’orario di lavoro,
di lavoro straordinario, riposo giornaliero e pause, riposo settimanale, ferie
annuali, lavoro notturno. L’orario normale di lavoro è fissato in 40 ore
settimanali ma l’articolo 16 del decreto prevede alcune particolari deroghe
per alcune categorie di lavoratori. La settimana, in riferimento ai limiti
orari, non è da intendersi solo come quella di calendario ma anche quella
riferita a un periodo qualsiasi pari a sette giorni.
Viene introdotto, e in questo modo data una risposta alle esigenze padronali
di utilizzo maggiore della manodopera in certi momenti piuttosto che in altri,
il regime degli orari multiperiodali dove viene prevista la possibilità di
eseguire durante l’anno orari superiori a quello normale oppure inferiori
mantenendo ferma la media annuale che non viene fatta corrispondere all’anno
civile ma ad un periodo mobile compreso tra un giorno qualsiasi dell’anno e il
corrispondente giorno dell’anno successivo.
Il decreto fissa poi la durata settimanale massima dell’orario di lavoro
ordinario e straordinario nel limite delle 48 ore considerando sempre lavoro
straordinario quello prestato oltre la quarantesima ora cioè “il lavoro
prestato oltre l’orario normale”. Non viene poi stabilito un limite
giornaliero di durata del lavoro ma viene indicato il diritto al riposo
giornaliero che non può essere inferiore alle undici ore consecutive di riposo
ogni ventiquattro ore, da cui si consegue un limite massimo di lavoro pari a
13 ore giornaliere.
Sono comunque previste deroghe attraverso la contrattazione collettiva sia
all’interno dei contratti collettivi nazionali che durante la contrattazione
di secondo livello (aziendale) e nel caso di superamento delle 48 ore di
lavoro settimanale il datore di lavoro è tenuto “solo” ad informare entro 30
giorni la direzione provinciale del lavoro tenendo sempre presente che la
media viene calcolata con riferimento ad un periodo non superiore a quattro
mesi elevabile da parte dei contratti collettivi a sei mesi o anche a dodici,
a fronte “di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del
lavoro”.
Per il calcolo poi delle 48 ore settimanali non vanno considerati i periodi di
malattia, di ferie, l’infortunio, la gravidanza che determinano così lo
scorrimento del periodo di riferimento dei quattro o più mesi previsti dalla
contrattazione. Il decreto legge delinea anche i concetti di “periodo
notturno” e di “lavoratore notturno”. Il periodo notturno è quel lavoro
prestato in un periodo di almeno sette ore consecutive che comprendono
l’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino, mentre viene inteso
come lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga, durante il periodo
notturno, almeno una parte del suo tempo di lavoro giornaliero per un minimo
di 80 giorni lavorativi all’anno ma non in maniera saltuaria e non regolare.
Il lavoro notturno non può superare le 8 ore di lavoro in media nelle 24,
salva sempre una diversa individuazione da parte dei contratti collettivi.
Chiaramente questa è la normativa di legge mentre sappiamo che la realtà
propone delle condizioni sia rispetto agli orari di lavoro che per tutti gli
altri fattori legati al lavoro - dal salario alla sicurezza, ecc...- di gran
lunga peggiori. Peggioramento delle condizioni che aumenta dove le forme di
ricatto determinate anche dalla presenza di forme di lavoro precarie sono più
forti.
L’orario di lavoro e la conseguente determinazione del concetto di giornata
lavorativa sono direttamente legati al processo di valorizzazione del capitale
cioè al processo di produzione del plusvalore. Sintetizzando il concetto di
giornata lavorativa descritto da Karl Marx nel Libro primo del Capitale, il
capitalista non avrebbe alcun interesse ad acquistare forza-lavoro “al suo
valore” se poi dovesse limitare il suo tempo di lavoro allo stretto necessario
per la sua riproduzione. Egli, infatti, compra forza-lavoro proprio per
sfruttarne il valore d’uso per un tempo di lavoro più lungo del tempo di
lavoro necessario alla sua riproduzione. Il tempo di lavoro della giornata
lavorativa si può perciò dividere in due parti: tempo di lavoro necessario e
tempo di pluslavoro. Se il limite minimo della giornata lavorativa è
difficilmente definibile pur essendo, ovviamente, sempre maggiore del tempo di
lavoro necessario, il limite massimo è determinato da due fattori: il limite
fisico della forza-lavoro (un operaio non può lavorare più di un tot senza
stramazzare); il limite storico (la forza del movimento operaio e della
borghesia, le acquisizioni sociali, ...).
Tuttavia entro questi limiti assai incerti, l’impulso del capitale è quello di
valorizzarsi al massimo grado, ingoiare cioè più pluslavoro possibile. “Il
capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando
lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia” (K. Marx). Questa “sete da
vampiro che il capitale ha del vivo sangue del lavoro” è il motore che ha
spinto la giornata lavorativa oltre i limiti della giornata naturale, fino a
comprendere anche la notte. E poiché uno stesso operaio non può certo lavorare
24 ore filate, ciò ha significato istituire il sistema dei turni.
Con il sistema dei turni il capitalista ha allargato fino al limite estremo la
giornata lavorativa, accrescendo così il tempo di pluslavoro a sua
disposizione e, dunque, la quota di plusprodotto, vale a dire quella parte non
retribuita di prodotto che rappresenta il plusvalore.” (“La produzione del
plusvalore” da L’ape e il comunista, 1980)
Il capitalista per estrarre ed aumentare il plusvalore si muove in due
direzioni tra di loro in stretto rapporto. Può aumentare le ore giornaliere di
lavoro per l’operaio lasciando invariato il lavoro necessario, e si definisce
questo estrazione di plusvalore assoluto, oppure mantenendo intatto il tempo
della giornata relativa riducendo però il tempo del lavoro necessario cioè
estrazione di plusvalore relativo. La differenza tra i due momenti è
determinata dal processo storico dello sviluppo del modo di produzione
capitalistico. I fattori che li determinano sono dati dalla possibilità di
prolungare la giornata lavorativa, dalla resistenza dei lavoratori, dalla
concorrenza tra capitalisti, dall’introduzione nel processo produttivo di
nuove macchine e di nuove tecnologie.
Nello stadio attuale del dominio del capitale tutta la logica dello sviluppo
tecnologico, dell’utilizzo delle macchine e dell’applicazione della scienza
divengono tutte interne al processo di valorizzazione. Processo che risponde
alla duplice esigenza di ridurre in modo tendenziale il tempo di lavoro
necessario e al contempo di imporre il proprio dominio e controllo sui
lavoratori.
Ed il continuo rivoluzionamento dell’organizzazione del lavoro supportata da
un incessante sviluppo tecnologico deve rispondere alle necessità padronali di
ridurre la parte retribuita del tempo di lavoro e di aumentare quella non
retribuita (quella che si è definita pluslavoro) di cui il capitalista si
appropria gratuitamente; per fare questo è necessario un prolungamento del
tempo di lavoro assoluto, della giornata lavorativa. Ed in base alle necessità
produttive la caratteristica “normale” del mondo del lavoro oggi diventa
quella caratterizzata da giornate lavorative che vanno oltre le classiche otto
ore con forme di flessibilità nell’orario sempre maggiori alternate a periodi
di “forzata inattività”.
Assistiamo così a uno sviluppo economico che se ha comportato una dilatazione
ed un prolungamento della giornata lavorativa non ha portato al contempo alla
creazione di lavoro ma invece alla sua distruzione.
Riportiamo l’esempio della società spagnola Telefònica che nel 1995,
nonostante fosse in attivo e ci fosse stato un aumento della produttività (nel
1984 a ogni lavoratore corrispondevano 114 linee mentre nel 1995 203), la
direzione lanciò un piano di licenziamenti che portò nel 1999 alla perdita di
13.000 posti senza un reale progetto di riduzione degli orari. L’introduzione
delle macchine ha portato ad un aumento della disoccupazione e della
sotto-occupazione e nell’attuale sviluppo di forme contrattuali precarie e
flessibili ad un aumento ed una nuova caratterizzazione di un vasto esercito
industriale di riserva di lavoratori “individuali” provocando il superamento
della domanda di lavoro da parte dell’offerta, sviluppando meccanismi di
concorrenza fra i lavoratori con una conseguente compressione del salario ed
un aumento del potere padronale.
Rispondendo a queste leggi dell’economia capitalista assistiamo oggi sempre
più al superamento di una rigidità dell’orario del lavoro con una realtà che
vede un numero sempre maggiore di lavoratori soggetti a lavorare con forme di
orario “atipiche”.
Anche l’Italia non sfugge a questa realtà. Oramai sono la norma le situazioni
in cui organizzazione del lavoro e orari sono fatti a uso e consumo dei datori
di lavoro. L’indagine dell’Istat riferita al secondo semestre del 2004
riferisce che la metà dei circa 16 milioni di lavoratori dipendenti lavora
abitualmente o saltuariamente con orari “atipici”: lavora la sera, la notte,
il sabato e durante i giorni festivi. Poco più di uno su tre ha orari
flessibili. Il 33,5% dei dipendenti uomini ed il 34,2% delle donne lavora di
sera, di notte, nei prefestivi e di domenica. Solo per una parte di questi
lavoratori si tratta di una flessibilità stabilita da una contrattazione
collettiva mentre in grande percentuale si tratta di una flessibilità
informale concordata o direttamente con il datore di lavoro o in assenza di
qualsiasi forma di contrattazione cioè in regime di totale flessibilità e
subordinazione alle esigenze della produzione.
L’orario atipico più utilizzato è il lavoro di sabato (29,5%) seguito dal
lavoro serale (11%) e domenicale (6,5%). Il lavoro part-time riguarda un
lavoratore su otto, è diffuso principalmente nel terziario dove nella maggior
parte dei casi è di tipo orizzontale cioè con meno ore per tutti i giorni.
Con i decreti attuativi della legge 30 per il part-time viene abolito il tetto
massimo di ore supplementari - quelle fino al raggiungimento delle 40 ore
settimanali - che il datore di lavoro può richiedere che precedentemente era
fissato al limite del 10% rispetto all’orario concordato. Il lavoro a turni è
diffuso principalmente nell’industria (20,2%) dove il 17% dei dipendenti
lavora su due o tre turni, nel commercio (19,3%) e nei servizi sociali
(25,8%). Il lavoro serale coinvolge il 21% dei dipendenti e quello notturno
oltre il 12%. Nella distribuzione commerciale poco meno del 60% dei dipendenti
lavora il sabato e quasi il 20% la domenica. Il lavoro straordinario ha una
diffusione maggiore nell’industria, lavoro che per un quarto dei lavoratori
non è retribuito affatto o lo è solo in parte.
La diversificazione degli orari riguarda anche i lavoratori autonomi sempre
più privi di possibilità di gestione autonoma del tempo di lavoro ed in
particolare per i lavoratori a progetto o ex-co.co.co, più del 70% di questi è
da considerarsi vincolato come se fosse un “dipendente”.
Nei rinnovi contrattuali degli ultimi anni seguendo la scellerata linea da
parte sindacale della concertazione si sono istituzionalizzate le varie
gestioni flessibili dell’orario. In particolare nell’ultimo contratto dei
tessili, scaduto il 31 dicembre scorso ed il cui rinnovo riguarda circa
874.000 lavoratori, si è voluto rimodellare la struttura dell’orario alle
esigenze produttive delle imprese del settore. La media dell’orario
settimanale viene calcolata sui 12 mesi in modo da modulare i carichi di
lavoro. Le aziende possono fare poi riferimento in linea generale a due
modelli: uno cosiddetto 5 per 8, cioè otto ore di lavoro per cinque giorni
alla settimana con il riposo a scorrimento; ed il 6 per 6.
Per l’applicazione di entrambe le tipologie non è più necessario un negoziato
con il sindacato ma è sufficiente un passaggio aziendale. Per rispondere ai
picchi produttivi il contratto ha previsto una norma che fissa in 96 ore di
flessibilità un pacchetto di ore a cui l’azienda può fare ricorso.
Tutte queste misure che il sindacato ha “concesso”, spesso utilizzando
l’argomento della crisi del settore tessile, non hanno impedito però la
chiusura o il ridimensionamento di numerosi siti produttivi e la loro
delocalizzazione in paesi dal costo del lavoro più basso e dalla presenza di
una classe operaia meno organizzata e più debole.
Come si diceva all’inizio di questo lavoro anche all’interno dell’attuale
vertenza contrattuale dei metalmeccanici ha un peso decisivo la richiesta
padronale di ulteriore flessibilità e destrutturazione degli orari di lavoro.
Gli industriali chiedono libertà di scelta da parte del lavoratore per lo
straordinario al sabato senza il ricorso ad un accordo preventivo con le Rsu,
un più semplice utilizzo delle 64 ore previste per l’orario plurisettimanale e
l’uso flessibile di una quota limitata dei premessi annui retribuiti.
Quello che si vuole ottenere è comunque subordinare sempre più l’utilizzo
della manodopera alle esigenze della produzione, ad una maggiore produttività,
attaccando nello stesso tempo la funzione ricompositiva che ancora hanno i
contratti collettivi di lavoro cercando un loro superamento attraverso
l’individualizzazione dei rapporti o a livello aziendale o meglio con i
singoli lavoratori.
Ricordiamo che con la Legge 30 attraverso l’istituto della certificazione è
stata introdotta la contrattazione individuale che supera le norme collettive
e la contrattazione aziendale. Ed imporre a tutti i settori ed in particolar
modo anche a quello che ancora esprime il livello più alto di conflittualità,
quella cultura della flessibilità che il presidente Pietro Guindani dell’Asstel,
l’associazione delle imprese delle telecomunicazioni e amministratore delegato
di Vodafone Italia, ha ben sintetizzato alla sottoscrizione del rinnovo
contrattuale dove “i sindacati hanno compreso le esigenze delle imprese....”
esigenze di un “settore delle telecomunicazioni che da sempre si caratterizza
per una forte flessibilità dell’organizzazione del lavoro che, non bisogna
dimenticare, si svolge senza interruzione per 365 giorni l’anno ventiquattr’ore
su ventiquattro”.
È questa forte richiesta di flessibilità che permette alle aziende locali di
essere alla pari con i livelli più avanzati del processo industriale,
sfruttando maggiormente il lavoro secondo le diverse esigenze ed allargando,
in modo precario e quindi con livelli di ricatto maggiori, la partecipazione
della popolazione all’attività economica ma anche la determinazione padronale
a imporre e a ripristinare il comando di impresa che determina, all’interno di
un rinnovo contrattuale come quello dei metalmeccanici, che doveva riguardare
la sola sfera economica di imporre uno scambio fra aumenti salariali (bassi) e
nuove regole normative.
La determinazione e la forza delle lotte che nelle settimane di gennaio i
lavoratori sono stati in grado di mettere in campo superando l’inutile rituale
di scioperi che non creavano disagi alla controparte padronale, portando la
lotta sulle grandi arterie stradali e sui binari ferroviari, se da un lato ha
dimostrato ancora una volta, se ce n’era bisogno, il grande potenziale di
forza sociale del movimento operaio, dall’altro ha riproposto la debolezza di
un quadro politico e di dirigenza sindacale tutto interno alle logiche delle
compatibilità istituzionali ed al quadro della concertazione. Così si è potuto
arrivare dopo 13 mesi a un accordo per un nuovo contratto che però ha dato,
per quanto ad esempio ci interessa vedere rispetto alla regolamentazione
dell’orario, nuove conquiste per gli interessi padronali senza saper o voler
imporre una linea di fermezza o cercando di invertire una tendenza ri/portando
parole d’ordine che appartengono ai bisogni immediati della classe: + salario
- orario. Chiarisce bene questa situazione il comunicato di Alternativa
operaia in Cgil del 20/1/2006: “...L’altra questione decisiva sono le aperture
fatte sulla flessibilità, sia nella gestione degli orari di lavoro che
nell’utilizzo dell’apprendistato per i giovani che entrano in fabbrica.
L’orario plurisettimanale significa la possibilità di organizzare la settimana
lavorativa allungando o accorciando il numero di ore da prestare nell’arco
della settimana in base alle esigenze produttive aziendali. Fino ad ora questa
possibilità era concessa solo a quelle aziende che producono beni con una
chiara connotazione stagionale, da oggi è stata estesa a tutte le fabbriche
metalmeccaniche.
È vero, Federmeccanica non ha sfondato totalmente su questo punto, volevano
l’orario plurisettimanale per tutti deciso in modo unilaterale dai padroni, e
questo non è stato ottenuto. Infatti la preintesa prevede che l’orario di
lavoro dovrà essere deciso trattando coi delegati sindacali aziendali, detto
questo però non si può ignorare il fatto che prima di questa intesa tutto ciò
non era permesso, e che i rapporti di forza messi in campo in questi giorni
avevano creato le condizioni perché questa questione non entrasse per nulla
nella trattativa (come già giustamente la Fiom aveva impedito che avvenisse
nelle trattative tenute tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio e che
erano state la causa della rottura coi padroni). Le aperture sulla
flessibilità tra l’altro non erano mai state discusse coi lavoratori nelle
assemblee in cui è stata presentata la piattaforma. Come non era stato oggetto
della piattaforma un altro punto, ovvero le concessioni che sono state fatte
dai sindacati metalmeccanici sull’apprendistato...”
Questo sommariamente è il quadro in cui il movimento dei lavoratori si muove;
una realtà dove lavorare sull’intera giornata per tutti i giorni dell’anno non
è più un tabù e dove un controllo e una rigidità rispetto all’orario non
esistono più. Un quadro in cui i lavoratori e i proletari si ritrovano a
fronteggiare una molteplicità di rapporti a loro antagonisti e che cercano di
imporre il proprio potere, quello della borghesia.
Dal movimento reale del capitale e dalle regole del mercato capitalista che,
dove possono impongono le loro necessità di maggior produzione a minor costo,
e queste condizioni precedono ed ignorano norme e regolamenti, vengono
applicate prima che la normativa borghese si adegui e ne faccia regola
inviolabile. Dalle varie normative che vengono impartire sia dalle istituzioni
transnazionali che da quelle nazionali. Dai contratti nazionali di categoria a
quelli della contrattazione decentrata e territoriale fino ad imporne una
contrattazione individuale.
Si tratta di un attacco complessivo alla condizione di classe a cui deve
necessariamente corrispondere un processo di lotta e ricomposizione politica
del proletariato metropolitano. Una risposta che non può più essere affrontata
unicamente dalla mobilitazione del movimento sindacale - anche se oggi questo
è forse l’unica struttura organizzativa di massa che almeno in Italia ha
resistito ed è in grado di incidere seppur parzialmente sui rapporti di forza
- ma necessita della ri/costruzione e ri/composizione di una centralità
politica del proletariato metropolitano come soggetto attivo della
trasformazione rivoluzionaria della società.
Negli anni scorsi grandi cicli di lotte avevano determinato una progressiva
riduzione degli orari di lavoro ed in certi Stati-nazione come la Francia era
diventato legge lavorare per 35 ore settimanali (legge utile anche ai padroni
in quella data fase) o in Germania in grandi poli industriali si era arrivati
alla stessa situazione; oggi il comando capitalista toglie ed impone il
ritorno ad una giornata lavorativa più lunga mantenendo inalterata la paga
giornaliera. A questi attacchi non si è riusciti a dare delle risposte in
termini di lotta e critica e a parte qualche appello di principio si è fatto
finta di non vedere come attraverso norme attuative come quelle delineate
dall’Unione Europea - che ne svelano la sua essenza di polo imperialista -
sugli orari di lavoro vengono imposti nuovi rapporti di dominio e di
sfruttamento.
Nello stesso tempo viene alla luce come rimanendo interni alle compatibilità
della produttività e rimanendo vincolati al diktat padronale dei licenziamenti
e della precarizzazione non si può che accettare progressivamente i piani
imposti dal capitale; un piano riformista che vive ancora nell’impossibile
utopismo reazionario della prospettiva di un ritorno a forme di accumulazione
di periodi precedenti (tipo Welfare..) o ben che vada nella difesa degli spazi
di “rigidità”.
Occorre forse ri/prendere percorsi di lotta contro le direttive europee (sugli
orari come contro la “Direttiva Bolkestein”), ri/prendere la parola d’ordine
della riduzione dell’orario di lavoro, rivendicazione fondamentale del
proletariato che si ritrova in numerose lotte sociali e nello stesso concetto
di emancipazione sociale, facendola vivere a fianco ed insieme alle diverse
vertenze contrattuali in corso come quella del settore chimico-farmaceutico
(220.000 lavoratori) dove i sindacati cercano la conferma delle 37,40 ore
settimanali o quella dei 130mila lavoratori del comparto sanità o degli
874mila dipendenti del tessile (categorie dove alta è la flessibilità
dell’orario).
Perché la ri/composizione del proletariato metropolitano è il risultato di un
processo di lotta in stretta dialettica a un programma e una prospettiva
rivoluzionaria che deve tendere anche alla prospettiva storica per il
movimento operaio della riduzione del tempo di lavoro necessario.
“Il lavoro necessario per la riproduzione della società nelle attuali
condizioni, come abbiamo visto, può essere effettivamente ridotto a misure
estremamente piccole. Di qui bisogna partire
- per realizzare una liberazione massiccia di tempo disponibile per ogni
individuo e per l’intera società;
- per ridefinire il concetto di ricchezza fondandolo non più sul tempo di
lavoro ma sul tempo disponibile;
- per costruire le condizioni materiali e sociali di un impiego evoluto del
tempo liberato, impiego che sia cioè finalizzato allo sviluppo onnilaterale
degli individui sociali, alla formazione scientifica, artistica, ... di
ciascuno e di tutti.
Affinché il libero sviluppo di ciascuno sia effettivamente la condizione del
libero sviluppo di tutti.”
(“Dal capitalismo ... al comunismo” da L’ape e il comunista, 1980).
Ma è oggi possibile una riduzione dell’orario di lavoro solo nei paesi del
centro imperialista senza che ci sia un rivoluzionamento dei rapporti di
produzione a livello mondiale? Il benessere di alcuni lavoratori non avrà la
conseguenza di far ricadere un maggior sfruttamento e maggior oppressione
economica sui lavori di basso profilo di alcuni settori del centro ed
essenzialmente sui lavoratori e i proletari del Tricontinente riproducendo ed
estremizzando una gerarchizzazione classista e razzista fra gli stessi
proletari? E come potranno usufruirne tutti quei lavoratori flessibili e
precari che percependo bassi salari sono costretti a ricorrere a ore di lavoro
straordinarie o non possono “scegliersi” l’orario di lavoro? E a tutti quei
lavori dell’economia “informale”?
“La questione della redistribuzione del lavoro, che oggi si pone con urgenza,
definisce i contorni del problema della finalità della produzione, della sua
mondializzazione e finalmente del radicale ritorno della merce al valore
d’uso. Pone il problema dei bisogni reali degli individui e delle loro
collettività reali. Delimita il divenire delle loro esistenze emancipate
dall’alienazione del rapporto del capitale. La redistribuzione e la riduzione
del tempo di lavoro parlano di una rivoluzione proletaria mondiale.
Ma questa esige un posizionamento senza ambiguità. Si situa sia sul terreno
della redistribuzione del lavoro, nei termini capitalistici ed imperialisti,
negli spazi metropolitani, sia al di fuori, nella ricerca di un altro tipo di
redistribuzione e su altri spazi. Di fronte a questa scelta, per la nostra
classe non c’è alcuna altra soluzione.
Super-sfruttamento, sovrappopolazione e pauperizzazione sono incatenate nella
stessa tendenza storica del capitalismo. Sono i prodotti della contraddizione
fondamentale fra lo sviluppo delle forze produttive ed i rapporti di
produzione, della crisi generale di sovrapproduzione assoluta di capitale e
dei rapporti di forza imposti dai monopoli.
La coniugazione di questi tre caratteri conosce nella nostra epoca un salto in
avanti considerevole. Non permette più alla borghesia imperialista di
equilibrare se non nel medio termine il nuovo regime di accumulazione. Al
contrario, con la generalizzazione della precarietà (che producono) rinforzano
il pugno di ferro di una vera situazione rivoluzionaria.
Da un lato la lotta di classe della borghesia tenta di ristabilire il tasso di
profitto, di rompere la resistenza proletaria, di rilanciare l’accumulazione
al fine di uscire dalla crisi e di superare così i limiti attuali del sistema,
e dall’altro lato, i risultati di questo antagonismo di classe, la crescita
numerica del proletariato, l’esplosiva polarizzazione sociale, la
destabilizzazione e la proletarizzazione di larga parte della classe media, lo
sviluppo della sovrappopolazione, della pauperizzazione assoluta e relativa...
sono legati agli stessi termini di crisi di valorizzazione del capitale.
E la condizione soggettiva di questa situazione rivoluzionaria, il detonatore
che darà fuoco alla prateria, è lo sviluppo della coscienza di classe, della
coscienza nel proletariato dell’insicurezza della sua esistenza, «e
all’interno del capitalismo, non ci sono rimedi a questo male». La sua
coscienza della precarietà come attuale modello sociale e della risposta
unitaria necessaria come classe: unità internazionalista e azione autonoma di
classe.” (Le prolétaire précaire; Aubron, Ménigon, Rouillan, Schleicher;
2001).
La
direttiva Bolkestein
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