SENZA CENSURA N.21
novembre 2006
La vittoria della Resistenza Libanese e la disfatta dell’entità sionista
«Qualitativamente, la sola cosa che non hanno
impiegato, è l’arma nucleare»
Intervista a H. Nasrallah, «As-Safir», 5/9/2006
Per la prima volta nella storia della sua esistenza Israele è stata sconfitta
sul campo di battaglia.
Il primo punto dei «fondamenti della dottrina militare israeliana», che
compaiono su tutti i testi delle accademie e in bella mostra sul sito ufficiale
dell’IDF, recita: «Israele non si può permettere di perdere una sola guerra»!
In maniera appropriata Hassan Nasrallah, segretario generale degli Hezbollah ha
definito questa vittoria «storica e strategica».
L’entità sionista è una società castrense e segregazionista che deve la sua
coesione alla fiducia riposta nella più importante delle sue istituzioni:
l’esercito, che è in grave crisi.
I cittadini israeliani prestano servizio nell’esercito ogni anno per un
determinato periodo di tempo, mentre il suo apparato militar-industriale è
all’avanguardia nella ricerca e nello sviluppo di armi, senza tralasciare che
Israele è l’unico stato nel Medio Oriente a possedere un arsenale atomico
stimato attorno alle duecento testate.
La fiducia nella propria superiorità militare non è stato solo un legante
sociale fondamentale, ma una arma da guerra anch’essa da usare contro i propri
nemici in cui inculcare la convinzione della propria invincibilità come
strumento di deterrenza e della supposta assennatezza di coloro che hanno
praticato una politica accomodante nei confronti di Israele.
La fiducia nelle istituzioni sembra essere così calata che dei sondaggi
d’opinione hanno mostrato come le trasmissioni quotidiane in ebraico di «Al-Manar»
(il canale televisivo di Hezbollah) sono state ascoltate dagli israeliani più
che i bollettini d’informazione dei canali israeliani!
Shimon Peres ha colto l’essenzialità della questione quando ha dichiarato che
rispetto a questa guerra si trattava di una questione di vita o di morte.
La disfatta militare israeliana è evidente, la vittoria della Resistenza, se da
un lato si pone in continuità con il ritiro del 2000 dal Sud del Libano, dopo 18
anni di resistenza contro l’occupante, da un altro segna la discontinuità nella
dimostrata nuova possibilità di resistere sul campo ad un’aggressione militare
dell’esercito sionista.
Come argomenta il generale Fabio Mini, già comandante KFOR: «Hezbollah ha
dimostrato che la lotta contro Israele può essere condotta, può essere vinta e
non è neppure costosa, basta volerlo veramente. Forse non era questo che Israele
voleva».
La guerra sul fronte israeliano
Più esattamente la sua sconfitta militare è il risultato della crisi che
affronta la società sionista, che le vicende legate alla popolazione residente
nei territori “israeliani” colpiti dai missili di Hezbollah hanno evidenziato.
Sempre Hassan Nasrallah in una intervista di Tal Salman del 5 settembre 2006 ad
«As-Safir», ha dichiarato: «Se il popolo di questa entità perde fiducia nel suo
esercito protettore, che incarna la fortezza impenetrabile dell’entità, molti
investimenti lasceranno il paese e sempre più delle crepe politiche compariranno
all’interno dell’entità.»
Il Paese si è trovato dall’oggi al domani con un sesto della popolazione in
prima linea.
96.000 sono coloro che sono evacuati dalla prima linea e sebbene siano ben
lontani dai numeri degli sfollati libanesi, hanno messo in crisi il governo
israeliano.
Chi ha potuto si è trasferito altrove o ha continuato le sue “vacanze coatte”, e
come ammette Gabriele Cavaglion, ricercatore e professore di criminologia ed
assistenza sociale all’Ashkelon Academic College, in Israele, «soltanto per
pochi lasciare il paese in questi frangenti è stato sentito come mancanza di
solidarietà morale con i concittadini».
I casi più eclatanti di questo mancato patriottismo, subordinato al beneficio
individuale, sono stati senz’altro quello del niente poco di meno che capo di
Stato maggiore delle Forze armate israeliane, generale Dan Halutz, che alla
vigilia dello scontro bellico aveva trovato il tempo di vendere i suoi titoli
azionari prima del crollo temporaneo (-8,3%) della Borsa di Tel Aviv e il
parlamentare di destra Zachi HaNegbi, deciso a non negarsi un viaggio di piacere
all’estero…
Chi è rimasto e si trovava in prima linea, generalmente la parte più povera
della popolazione, per buona parte araba, ha dovuto rifugiarsi in stanze di
sicurezza corazzate o bunker ben poco ospitali, mentre il governo israeliano non
ha fatto quasi nulla per aiutare la “sua” popolazione, delegando in gran parte
all’iniziativa privata qualsiasi opera di sussistenza: fra i 96 mila civili che
sono evacuati dalla prima linea, soltanto 22 mila hanno ricevuto assistenza dal
governo.
Come ha scritto sempre G.Cavaglion: «In un paese moderno si viene così a
scoprire che la soluzione al problema di una massa di popolazione evacuata viene
dai nuclei di supporto tradizionale: famiglie, amici o gente di buon cuore,
organizzazioni filantropiche, alle volte interi quartieri o vicini ben
intenzionati».
Gli imprenditori del nord d’Israele parlano di crisi edilizia dall’inizio della
tregua: la domanda è in calo e i prezzi delle case sono scesi di circa il 20%.
Alcune industrie del Nord pensano di trasferirsi al Centro o persino all’estero
per diminuire i rischi.
Dal punto di vista non certamente dei danni materiali ma del danno psicologico
derivato dalla scoperta della propria vulnerabilità e dell’incapacità di fare
fronte all’emergenza è vero ciò che il politologo Yaron Ezrahi ha dichiarato al
«Jerusalem Report»:
«Quanto è avvenuto nel Nord è simile al caso di New Orleans durante l’uragano
Katrina»
La disfatta dell’«Air Power»
Il Pentagono ha imposto la tecnica del Shock and Awe nel quadro, classico
per il Tsahal, della “guerra lampo”.
Si era erroneamente pensato che i bombardamenti massicci fossero sufficienti a
costringere il nemico alla resa, spingendo i libanesi a rivoltarsi contro la
Resistenza e ad appoggiare un governo disposto a firmare una pace con gli
israeliani ispirata alle condizioni da loro dettate.
La filosofia del bombardamento come arma risolutiva ha una lunga tradizione e
furono proprio due italiani, Douhet e Mecozzi, a razionalizzare il potere aereo
e a presentarla in chiave risolutiva; così come il generale britannico Arthur
Harris nella Seconda Guerra Mondiale, che intendeva uccidere un milione di
tedeschi - andandoci peraltro vicino - e paralizzare il sistema industriale, ma
riuscì solamente a rinfocolare l’odio verso le truppe alleate da parte della
popolazione tedesca senza nemmeno far calare la produzione bellica.
Gli statunitensi sono degni continuatori di questa scuola di pensiero
applicandola da 60 anni a questa parte.
Come ha scritto Fabio Mini: «La storia non ha ancora fornito un solo esempio
della capacità del potere aereo di vincere le battaglie, ma esso è ormai un mito
consolidato che i maldicenti dicono serva ai generali dell'Aeronautica a vincere
la sola battaglia sanguinaria che sono in grado di combattere: quella contro gli
ammiragli e i colleghi dell’Esercito per le assegnazioni di bilancio.»
Le dichiarazioni di esponenti del governo e del capo di Stato Maggiore Halutz
non lasciano dubbi sulla totale sintonia rispetto allo strategia di scatenamento
di una guerra globale contro i civili libanesi e di desertificazione per via
aerea del Libano, offensiva che per bocca dello stesso generale avrebbe
riportato: «l’orologio libanese indietro di vent’anni».
Alla fine di una giornata e mezzo di bombardamenti lo Tsahal aveva tagliato le
comunicazioni tra il nord e il Sud del paese, reso impraticabile l'aeroporto di
Beirut, distrutto le riserve di idrocarburi, bloccato le banchine dei principali
porti e imposto un embargo aereo e navale, mentre sulle strade tra Libano e
Siria si pressavano colonne di sfollati, che alla fine della guerra saranno un
milione.
Saranno accolti da altri “rifugiati” nei campi profughi palestinesi, dagli
Hezbollah; in generale la solidarietà umana che si è espressa servirà a
cementificare la coesione politica dei libanesi contro l’aggressore e a
scacciare lo spettro del ritorno di una “guerra civile” intra-libanese. cara
alla strategie di “instabilità costruttiva” elaborate dai think-tank neo-cons
americani per tutto il mondo arabo.
Il secondo giorno l’aviazione ha bombardato gli studios di Al-manar e la sua
sede nazionale: le trasmissioni sono state interrotte per due minuti e poi sono
riprese e non c’è stato alcun effetto sull’organizzazione, nemmeno dopo 6 giorni
consecutivi di bombardamento su Beirut-Est.
Era dai tempi della distruzione di Hanoi per opera dell’US Air Force nel ’72 che
un esercito moderno non ricorreva a questo tipo di bombardamento su una zona
urbana, fatta eccezione per i bombardamenti su Belgrado a fine anni ’90 e quelli
più recenti contro Falluja, mentre l’artiglieria della Resistenza cercava di
colpire obbiettivi militari riuscendo a distruggere un aeroporto militare, il
principale centro di trasmissioni elettroniche, il Quartier Generale del
Comando-Nord Israeliano e a danneggiare gravemente due navi da guerra.
Con la fine delle ostilità proclamata dall’ONU, gli sfollati libanesi hanno
ripreso il cammino del ritorno, accampandosi sulle rovine delle proprie
abitazioni distrutte e rifiutandosi così di cedere la propria terra,
costringendo le forze israeliane ad un più rapido ripiego.
La sconfitta dell’offensiva terrestre
Tradizionalmente una delle forze dello Tsahal è la capacità di
progressione rapida.
Dal primo giorno il tentativo di penetrazione terrestre da parte dei blindati ha
fallito, ed è stato allora interpretato come un tentativo prematuro.
Il blindato Israeliano Merkava era uno dei gioielli dell’apparato
militar-industriale Israeliano, progettato per dare la massima protezione
all’equipaggio, ma dopo la Guerra di Luglio Il Ministro della Difesa israeliano
ha annunciato che cesserà la produzione di questi blindati.
Se può sembrare forse eccessivo dire che la Guerra del Libano ha segnato la fine
dei blindati, così come la Battaglia di Azicourt segnò la fine dei cavalieri in
armatura, è senz’altro vero che segna la fine del mito della potenza dei Merkava.
«In molte occasioni gli ufficiali della IDF avevano affermato che lo scafo del
carro e le sue particolari protezioni avrebbero salvato la vita degli equipaggi
anche nei peggiori scenari» riporta Shlomo Aloni, nell’articolo: Operazioni
SUMMER RAIN e JUST REWARD, sul numero d’ottobre di «Rivista Italiana di Difesa»
che continua dicendo: «Complessivamente 50 Merkava hanno subito danni; 4 di
questi sono saltati in aria su cariche esplosive con la perdita di 13 carristi,
e 46 sono stati colpiti da missili anticarro. Secondo le prime stime, il 45% dei
Merkava Mk-2, 3 e 4 colpiti (21) sono stati penetrati. In 11 casi l’equipaggio è
sopravvissuto, mentre negli altri 10 vi sono stati 23 uomini colpiti. In ultima
analisi 20 sono risultati i Merkava distrutti (6 dalle mine e 14 dai missili
c/c).»
Del resto anche Giuseppe De Mattia, inizia l’articolo: L’amaro risveglio di
Tsahal, sul numero di ottobre di «Tecnologia e Difesa», con queste parole:
«Tralasciando le valutazioni di carattere generale legate agli scontri avvenuti
sul suolo libanese fra l’esercito israeliano ed hezbollah, di cui ci occuperemo
in altra sede, vogliamo focalizzare l’attenzione su un aspetto del conflitto che
ha particolarmente colpito gli Stati Maggiori: le forti perdite di mezzi
corazzati israeliani, dovute al massiccio impiego di missili anti-carro moderni
da parte della guerriglia. […] Questo fatto pone in evidenza due cose: che gli
Hezbollah hanno acquisito delle capacità operative “convenzionali” tipiche di
una forza militare regolare e, soprattutto, che hanno perso la “sindrome Merkava”
e lo stato di soggezione che ne conseguiva nei confronti di Tsahal.»
Ma aldilà degli aspetti tecnici che hanno una loro rilevanza va sottolineato
come la differenza di motivazioni al combattimento distingua i due campi
avversari, rendendo valido l’insegnamento con cui si conclude una targa in
memoria della lotta partigiana sul monte Cornua vicino a Genova: che sia di
monito ai nostalgici, che forza bruta non vince, ma vince volontà di popolo.
Il carattere popolare e tellurico della resistenza partigiana libanese ha vinto
rispetto allo strapotere aereo e navale dello Tsahal, auto-intossicato dalla
fiducia nelle proprie capacità, così come dalla fiducia nella propria
intelligence.
E proprio in un breve escursus della più che ventennale esperienza di fallimenti
dell’intelligence israeliana in Libano nei confronti di Hezbollah che Ronen
Bergaman riporta le parole di un veterano della guerra di spionaggio al “Partito
di Dio”: «è doloroso ammetterlo, ma in generale i servizi d’informazione
israeliani, salvo successi occasionali, hanno gravemente fallito contro
Hezbollah».
L’attribuire al fallimento dell’intellicence la responsabilità maggiore nella
sconfitta militare è comunque parziale e fuorviante, perché siamo convinti che
la natura dell’imperialismo, quando si scontra con una resistenza popolare
compatta, sia tuttora quella di «un gigante dai piedi d’argilla» e che la spinta
propulsiva del sionismo si sia definitivamente esaurita con le trasformazioni
dell’entità sionista stessa e con l’incapacità, in questo caso specifico, di
scatenare un conflitto fratricida intralibanese che si appoggi su cospicue forze
collaborazioniste che traggano beneficio da una occupazione militare e facciano
sul campo “il lavoro sporco” per conto degli imperialisti.
Tornando alla sconfitta terrestre è interessante ricordare cos’è avvenuto
durante gli ultimi giorni del conflitto, ricorrendo ad uno scritto di Uri Avnery,
apparso sul sito di Gush Shalom, il 18 agosto: «Tutti dicono che l’offensiva
terrestre era cominciata due giorni prima del cessate il fuoco. Grazie ai nostri
eroici soldati, gli uomini della riserva, era un travolgente successo. E quando
eravamo sul punto di una grande vittoria, arrivò il cessate il fuoco. Non c’è
una sola parola di verità in questo. L’operazione, pianificata da lungo tempo e
per la quale l’esercito si era addestrato per anni, non è stata iniziata prima
perché era chiaro che non avrebbe portato ad alcun risultato significativo,
mentre sarebbe stata dispendiosa in vite umane. L’esercito avrebbe potuto
occupare vaste aree, ma senza essere in grado di liberarle dagli Hezbollah. La
città di Bint Gubayl è stata attaccata dall’esercito per tre volte e i
combattenti Hezbollah vi sono rimasti fino alla fine. Se avessimo occupato venti
città e villaggi come questa i soldati e i carri armati sarebbero stati esposti
in venti luoghi diversi al mortale attacco della guerriglia con le sue
efficienti armi anticarro. Perciò perché è stato deciso di iniziare l’operazione
dopo che l’ONU aveva già chiesto la fine dell’ostilità? L’orribile risposta è
che si è trattato di un cinico per non dire vile tentativo del trio di falliti
Olmert, Peretz, Haluz di creare una immagine di vittoria, come essi stessi
dichiararono alla stampa. Su questo altare sono state sacrificate le vite di 33
soldati (tra cui una giovane donna). Lo scopo era di fotografare dei soldati
vittoriosi sulla riva del Litani. L’operazione sarebbe durata solo 48 ore per
l’entrata in vigore del cessate il fuoco. Nonostante l’esercito abbia usato gli
elicotteri per trasportare i soldati velocemente, lo scopo non è stato
raggiunto. In nessun modo l’esercito ha raggiunto il Litani. Nel 1982 l’esercito
attraversò il Litani in poche ore. Questa volta, quando è sopraggiunto il
cessate il fuoco, tutte le unità erano ferme e circondate dai combattenti
Hezbollah. Senza alcuna linea di rifornimento sicura».
Chiaramente non si trattava solo di salvare la faccia a governo ed esercito, ma
mettere la Comunità Internazionale di fronte al fatto compiuto di una
penetrazione territoriale ed una occupazione avvenuta da giocare sul tavolo
delle soluzioni post-belliche, con l’aiuto in primis di USA e Francia, e un
atteggiamento subordinato delle potenze europee.
Per la stesura di questi articoli ci si è avvalsi, oltre a quelle citate, delle
seguenti fonti:
Notre victoire e nos responsabilités, intervista a Hassan Nasrallah di Talal
Salman su «As Safir», tradotta dall’arabo e apparsa sul sito di Michelle Collon,
nella sezione “mes invites”
www.michelcollon.info. Sempre nella stessa sezione si trovano tradotti in
francese i commenti alla risoluzione 1701 dell’ONU di Hezbollah e del PC
Libanese, nonché la trascrizione del comizio di Hassan Nasrallah per la “Festa
della Vittoria” tenuto a Beirut il 22 settembre scorso.
La Waterloo delle spie, Ronen Bergman; Tsahal, una sconfitta da manuale, Fabio
Mini; C’è ancora uno stato in Israele?, Gabriele Cavaglion, in «Isreale contro
Iran. Gli scenari del dopo-Libano. Le disavventure del Mossad. Aspettando la
Bomba.» Quaderni speciali di Limes – Rivista Italiana di Geopolitica.
La défaite d’Israel au Liban, Thierry Meyssan,
www.voltairenet.org, Réseau de Presse
non-alignée.