SENZA CENSURA N.22
marzo 2007
Il Fronte Africano come parte della
strategia di guerra globale
Nonostante una evidente difficoltà sia sul piano militare, sia sul piano
politico, non si placa l’aggressività imperialista. Cercando di far dimenticare
la precedente esperienza somala, quella che ha rappresentato una delle più
sonore sconfitte della politica militare americana, la guerra al terrorismo apre
un’altro fronte al di là delle tradizionali aree di aggressione. Con i
bombardamenti in Somalia e dopo l’esperienza dell’intervento Nato in Darfur, che
non può che trovare le sue ragioni all’interno della più generale strategia
americana di dominio su quelle zone dove maggiori sono gli interessi in gioco
sul piano della competizione globale, è oramai chiaro che l’Africa diventa il
nuovo fronte dove propagandare la tanto «redditizia» guerra al terrorismo, nel
pieno rispetto della famosa linea guida americana di «colpire i terroristi
ovunque si trovino».
E’ superfluo sottolineare il caos che si è determinato come primo effetto, tanto
che già si parla da molte parti di «collasso del secondo fronte», ma queste come
ben sappiamo sono variabili, effetti collaterali subalterni alla necessità di
dominio.
Un dominio che gli stessi diretti interessati, in quanto soggetti dominati, non
riescono a non ritenere una chiara prosecuzione della strategia colonialista da
cui con molti sacrifici si erano liberati, che si ripresenta oggi con la stessa
aggressività e fame di distruzione.
Una espropriazione delle risorse che riesce a venire alla ribalta unicamente in
occasione delle tragedie delle esplosioni di petroldotti, quando la popolazione
tenta di riappropriarsi nei modi a loro disponibili di ciò che gli viene rubato,
o quando qualcuno decide che è arrivato il momento di tenere nelle proprie mani
coloro che operano per i loro deturpatori.
Secondo gli Usa il vasto potenziale dell’Africa rende la sua stabilità una
necessità strategica. Il Golfo di Guinea, ad esempio, che secondo le ultime
ricerche potrebbe fornire agli Usa il 25-35% di petrolio nel prossimo decennio,
è mal governato e privo di qualsiasi sicurezza. Oltre che per la qualità e la
quantità, queste riserve hanno la caratteristica di affacciarsi sulla parte
occidentale dell’Africa rendendole così facilmente trasportabili verso il
continente americano. In merito a questo aspetto specifico della sicurezza
marittima, gli Usa hanno già garantito fin dal 2005 la presenza della forza
navale americana in Europa a protezione degli interessi nel Golfo di Guinea.
Ma gli stessi affermano che non sono i soli ad interessarsi al continente
africano, in una situazione economica mondiale in cui nascenti paesi in forte
sviluppo industriale fanno aumentare la domanda di energia e conseguentemente si
affacciano prepotentemente in queste aree.
Non è un caso che l’iniziativa americana trovi maggiore intensità quando da più
parti si rileva una notevole aggressività economica di paesi come la Cina verso
quelli africani.
Le aziende e lo stato cinese hanno investito nella ultima decade miliardi di
dollari negli scambi commerciali con i paesi africani (Algeria, Angola, Gabon,
Nigeria, Sudan, e Zimbawe), ed in particolare hanno messo a disposizione la
propria tecnologia per il miglioramento delle infrastrutture relative
all’estrazione, trasformazione e trasporto di olii combustibili e gas. Tra il
2004 e il 2006 la Cina ha acquisito, attraverso la China National Petroleum
Corporation (CNPC), la maggioranza della compagnia che controlla la quasi
totalità del petrolio sudanese, garantendosi oltre il 70% del petrolio angolano;
si è assicurata il 45% del petrolio offshore nigeriano; ha investito ingenti
risorse in Gabon per mezzo della China National Petrochemical Corporation (SINOPEC)
che le permettono di garantirsi una parte significativa delle risorse
energetiche di questo paese.
Secondo il governo americano la Cina può rivendicare una stretta cooperazione
con i paesi africani. Durante l’embargo ha venduto allo Zimbawe numerosi
equipaggiamenti militari, compresi veicoli terrestri e marini. Circa l’80% dei
proventi ricavati dal Sudan dal commercio con la Cina servono a coprire il
pagamento delle forniture di missili di fabbricazione cinese. Non mancano i
rapporti con Liberia e Sierra Leone. I dati parlano di una crescita
dell’ammontare del commercio tra Cina e Paesi africani dai 3 miliardi di dollari
nel 1990 ai 55,5 miliardi dell’ultimo anno, tanto da essere definito «l’anno
dell’Africa». All’origine del «successo» cinese va riconosciuta la formula
vincente di un intervento morbido, o meglio il rispetto del principio di non
interferenza negli affari interni dei singoli paesi, a differenza
dell’«invasivo» intervento americano.
Partendo dalla Trans-Sahara Counter Terrorism Initiative (TSCTI), di cui abbiamo
già dato una breve descrizione nel numero 19 di Senza Censura, per quanto
possibile vorremo tentare di approfondire e dare elementi ulteriori in merito al
legame, tra le forme di resistenza nei paesi dominati e alcune lotte di
resistenza nei nostri territori; un legame che si sviluppa “naturalmente” sul
piano più generale delle attuali politiche imperialiste e che lo collocano su un
piano più avanzato di quello che la stessa soggettività di classe e popolare
riesce ad esprimere.
E’ importante soffermarsi brevemente su quanto affermato anche nei numeri
precedenti, che ritroveremo anche in seguito, riguardo alla stretta connessione
tra la stategia Usa nei confronti dei paesi del Magreb e il processo di
penetrazione nell’Africa sub sahariana. Un esempio su tutti è il ruolo rivestito
dalla cooperazione con uno dei paesi, l’Algeria, che si sta dimostrando un fido
«alleato» dell’imperialismo americano sul secondo fronte della «guerra al
terrorismo».
Già dal 2002 un pool dell’antiterrorismo americano visitò Ciad, Niger, Mali e
Mauritania invitando questi paesi a far parte della PAN SAHEL INITIATIVE. Il
programma di cooperazione prevedeva una stretta collaborazione per il controllo
delle frontiere, la sicurezza dei trasporti e non ultima la «lotta al
terrorismo».
Ma per il «debutto» ufficiale dobbiamo attendere il 2004, quando circa un
migliaio di soldati americani sbarcò nella capitale della Mauritania. Le
motivazioni ufficiali, dopo il rapimento di 32 turisti avvenuto nel 2003 nel
Sahara algerino ad opera di «islamisti», la lotta ai gruppi terroristici
presenti nell’area. E’ questa l’occasione che porta a definire da parte
americana la regione «una palude infestata da terroristi che deve essere
prosciugata». Già dal 2004 unità algerine e del Mali avevano operato, sotto la
copertura delle truppe Usa, azioni contro gruppi definiti terroristi, dopo che,
nel 2003, erano stati segnalati traning da parte americana ai servizi di
Intelligence algerini, oltre a quelli di Marocco, Egitto e Tunisia.
Si deduce da molte parti che l’interesse degli Usa, che ha l’obiettivo di
sopperire a parte del proprio bisogno energetico proprio dall’Africa, si lega
con l’interesse repressivo sul fronte interno del governo algerino. Questa
situazione ha fatto si che le remore nella fornitura di tecnologia da parte Usa
alle forze armate algerine sparissero. Ma parallelamente ha riconosciuto il
ruolo storico dell’Algeria nella guerra sporca alle organizzazioni islamiste,
oltre che garantire una maggiore capacità di repressione, se ce ne fosse stato
necessità, contro l’opposizione interna.
Con la partecipazione di Algeria, Marocco, Nigeria e Tunisia nel 2005 prende
vita la Trans-Sahara Counter Terrorism Initiative.
«La Trans-Sahara Counter Terrorism Initiative (TSCTI) è il piano di
interagenzia (a partecipazione nazionale) a lungo termine per combattere il
terrorismo nell’Africa transahariana, attraverso un’ampia gamma di strumenti
politici, economici e per la sicurezza. La necessità di un piano TSCTI ha
origine dalle preoccupazioni circa l’espansione delle operazioni delle
organizzazioni terroristiche islamiche nella regione del Sahel, una regione che
ha dimensioni simili a quelle degli Stati Uniti. All’interno dell’EUCOM
supportiamo la TSCTI attraverso il nostro coinvolgimento nell’Operazione Libertà
Duratura – Trans Sahara (ENDURING FREEDOM-TRANS SAHARA, OEF-TS). L’OEF-TS
rappresenta un approccio regionale e preventivo per combattere il terrorismo e
migliorare la capacità di risposta e la sicurezza ai confini delle nazioni
partner nell’Africa transahariana. L’operazione è stata studiata per assistere i
governi che perseguono il miglior controllo del proprio territorio, e per
impedire che zone molto vaste divengano rifugi sicuri per i gruppi terroristici.
La TSCTI si basa sul successo della Pan Sahel Initiative (PSI) del 2002, che
aiutò ad addestrare ed equipaggiare almeno una compagnia di intervento rapido in
ognuno dei quattro Stati del Sahel: Mali, Mauritania, Niger e Chad. La TSCTI è
un’iniziativa di proseguimento, più ambiziosa sia del punto di vista
programmatico che da quello delle aree interessate».
«...L’approccio generale della TSCTI è molto semplice: costruire capacità
indigene e facilitare la cooperazione tra i governi della regione. Le nazioni
partecipanti (Algeria, Chad, Mali, Mauritania, Marocco, Niger, Senegal, Nigeria
e Tunisia) si uniscono alla lotta contro l’estremismo islamico nella regione del
Sahel. Questa cooperazione rafforza le capacità antiterroristiche regionali,
migliora ed istituzionalizza la cooperazione tra le forze di sicurezza della
regione, promuove la democrazia, incoraggia lo sviluppo e l’educazione,
enfatizza il ruolo dell’esercito nel supporto degli ideali democratici e, per
finire, rafforza le nostre relazioni bilaterali all’interno della regione.
Inoltre, l’iniziativa aiuta le nazioni partecipanti a fermare il transito
illegale di armi, merci e persone attraverso la regione, aiuta le nazioni a
meglio proteggere i loro confini e contribuisce alla sicurezza comune.»
(GENERALE JAMES L. JONES, Comando Europeo dell’Esercito degli Stati Uniti).
Le strategie del pentagono guardano con interesse
alla possibilità di effettuare operazioni antiterrorismo in maniera indiretta
attraverso forme di cooperazione con paesi che garantiscono una certa sicurezza,
come avvenuto all’interno dell’esperienza della Combined Joint Task Force-Horn
of Africa (CJTF-HOA), anche in funzione della necessità di un minore impiego di
forze americane già ampiamente dislocate sul fronte afghano e iracheno. Questo è
stato il tema principale del Quadrennial Defense Review (QDR), stilato dai
vertici civili e militari del dipartimento della Difesa americano.
La strategia prevede l’utilizzo di forze non convenzionali (forze per operazioni
speciali) supportate da forze di intervento combinato aria, terra e mare.
Secondo quanto riportato dalle dichiarazioni ufficiali, in aggiunta alle forze
militari la CJTF-HOA, sono utilizzati i tristemente noti contractors.
La presenza di «Failed State», ritenuti tali per la mancanza di un approccio
unitario sul tema della sicurezza come la Somalia, Liberia e Sierra Leone
conseguente, a loro dire, alle implosioni di questi paesi e il caos che si è
determinato con la frammentazione del controllo del territorio, rendono in
questi casi estremamente gravoso, anche in termini economici, il costo da
sopportare. Non ultimo quello politico, per la complicità che verrebbe a
determinarsi nelle atrocità e violenze che certamente si perpetueranno.
L’iniziativa Global Peace Operations (GPOI) rappresenta il programma del
Dipartimento di Stato americano in collaborazione con quello della Difesa volto
all’addestramento e all’equipaggiamento di quelli che definiscono i «tutori
della pace». Il programma è portato avanti dall’ African Contingency Operations,
Training and Assistance (ACOTA) ed attualmente coinvolge 15 paesi. Il progetto è
di continuare ad assistere i paesi dell’Unione Africana al fine di sviluppare le
capacità militari necessarie per rispondere ai problemi regionali, proteggere le
risorse strategiche, ridurre le tensioni interne destabilizzanti, sviluppare
ulteriormente relazioni esterne cooperative e mutualmente utili. La priorità
numero uno in Africa è di supportare la Politica di Difesa e Sicurezza Comune
(Common African Defense and Security Policy, CADSP) dell’Unione Africana, così
come altre, per loro, valide organizzazioni per la sicurezza regionale. E’
chiaro il fine di sviluppare una forza militare che rappresenti in pieno la
subalterneità agli interessi politici ed economici dell’imperialismo Usa.
L’African Contingency Operations, Training and Assistance (ACOTA) è
un’iniziativa di addestramento del Peace Support Operations (PSO) del
Dipartimento di Stato, allo scopo di dotare l’Unione Africana della capacità
necessaria a rispondere rapidamente e professionalmente alle crisi regionali a
livello di battaglioni, stato maggiore, brigate e delle comunità economiche
regionali ed internazionali.Gli obiettivi del programma ACOTA includono
l’addestramento e la gestione di forze operative africane di peacekeeping, che
entro il 2010 dovrebbero contare 40.000 individui; lo sviluppo di nuovi
programmi di addestramento PSO, che saranno importanti per l’African Standby
Force (ASF) e le Brigate Regionali; l’addestramento di unità speciali.
Al comando dell’ACOTA troviamo il colonnello Nestor Pino-Marina, cubano
anticastrista che ha partecipato a fianco degli Usa alla Baia dei Porci, oltre
che essere ritenuto istruttore di unità speciali utilizzate in Vietnam e Laos.
In quanto anticomunista convinto e sempre a fianco nel condividere la
repressione delle insurrezioni popolari, durante l’era Reagan ha inoltre preso
parte ad operazioni antisandiniste.
I programmi di addestramento comprendono la formazione di una «Next Generation
of African Military Leaders» all’interno dell’African Centre for Strategic
Studies che si trova a Washington con vari «succursali» in paesi africani.
Sembra imminente una sua prossima localizzazione in un paese dell’Africa stessa.
Il Centro appare come una sorta di «School of the Africa» sulla linea della
tristemente famosa «School of America», fondata a Panama nel 1946 e nella quale
sono stati addestrati i protagonisti delle pagine buie della guerra a bassa
intensità e le stragi in America Latina.
A fianco di questo la Unione Africana ha istituito il «African Centre for the
Study and Research of Terrorism» con sede in Algeri. Il Centro, secondo il suo
direttore, non ha il solo il compito di formare sulle tematiche antiterrorismo
una nuova amministrazione giudiziaria, ma si assume il ruolo di addestrare il
personale necessario per specifiche operazioni militari a sostegno dei paesi del
continente. Operazioni militari che troveranno la loro legittimità avvalendosi
di quanto condiviso nella Convenzione di Algeri contro il Terrorismo, un testo
che lascia ben aperta la sua definizione in funzione di un possibile utilizzo
contro qualsiasi fenomeno di opposizione, organizzazioni e suoi militanti da
parte delle forze «antiterrorismo». Da più parte si da per sicuro l’utilizzo
della base di Diego Garcia, un isola dalla quale la popolazion è stata deportata
verso le Mauritius, come una seconda Guantanamo dove i prigionieri potranno
essere «detenuti e interrogati».
In Africa le nuove basi Usa sono situate in Djibuti, Senegal, Etiopia, Sao tomè
e Uganda.
Agli inizi di Febbraio il governo americano ha annunciato di aver creato un
Comando Unificato delle forze Combattenti in Africa, l’AFRICOM, allo scopo di
unificare i tre comandi che hanno la responsabilità delle tre aree africane, il
Central Command’s (CENTCOM) per il Sud Ovest e l’Africa Centrale oltre che i
setti paesi del Corno d’Africa (Djibouti, Egypt, Eritrea, Ethiopia, Kenya,
Somalia, e Sudan), European Command’s (EUCOM) per 45 paesi africani e il Pacific
Command’s (PACOM) per la parte est e le isole africane sul pacifico (Comoros,
Madagascar, Mauritius, e Seychelles). L’Africom non potrà essere operativo prima
del Settembre 2008 e avrà il suo quartier generale a «fianco» del comando
europeo presso la base di Stoccarda, al fine di poter gestire al meglio la fase
di passaggio di consegne.
Il Comandante del Comando Europeo dell’Esercito degli Stati Uniti (EUCOM)
davanti alla COMMISSIONE PER I SERVIZI ARMATI DEL SENATO affronta
approfonditamente la questione della strategia americana come linea guida della
NATO, ed in particolare l’importanza di un riposizionamento che sviluppi
maggiori capacità di proiezione e collaborazione nei e con i paesi africani.
[...] «L’obiettivo principale dell’Eucom per la sicurezza è di raggiungere un
posizionamento ed una capacità delle forze che garantiscano un maggiore effetto
strategico, sia all’interno della nostra area di responsabilità, sia con altri
comandi combattenti all’interno della Strategia per la Sicurezza Nazionale degli
Stati Uniti e della Strategia per la Difesa Nazionale. Le forze avanzate e
rotazionali salvaguarderanno il nostro ruolo di leadership all’interno della
NATO ed offriranno un modello tangibile per la sua trasformazione. L’agilità
delle nostre forze accresce la nostra capacità di condurre operazioni, e
garantisce che l’Europa rimanga impegnata in uno sforzo collaborativo per
affrontare i pericoli comuni in tema di sicurezza, sia attuali che futuri.
Questa partnership transatlantica aiuterà in modo eccezionale il rafforzamento
delle iniziative regionali e globali per la sicurezza.»
La modifica del teatro strategico e il riposizionamento delle forze di
proiezione unisce in maniera indissolubile la strategia della politica
imperialista americana al rafforzamento della logistica idonea alla sua
realizzazione.
L’obiettivo per la trasformazione strategica del teatro (Strategic Theater
Transformation, STT) è il posizionamento adeguato nello scenario di sicurezza
emergente. L’obiettivo è potenziare l’effetto strategico e l’agilità operativa.
«Il successo dipende dal mantenimento, all’interno del teatro, di sufficienti
strumenti fondamentali e di sufficienti capacità, sia come comando combattente
«supportato» che «di supporto»....... « Attraverso un modello di presenza
avanzata ampiamente riformato il tentativo di creare un’infrastruttura più
adattativa, con un maggiore impiego delle unità di rotazione per migliorare la
portata operativa e la flessibilità tattica con un maggiore accesso alle
infrastrutture delle nazioni ospitanti e la cooperazione con le nazioni amiche.
La valutazione delle infrastrutture è basata sulle Basi Operative Principali (1)
(Main Operating Bases, MOB), i Siti Operativi Avanzati (2) (Forward Operating
Sites, FOS) e i Siti di Cooperazione per la Sicurezza (3) (Cooperative Security
Locations, CSL).
La strategia si fonda sul mantenimento di una
forte presenza in Europa occidentale, apportando le migliorie necessarie alle
strutture d’addestramento esistenti, e allo stesso tempo spostando l’attenzione
al miglioramento della capacità dei nuovi alleati e partner. Secondo i vertici
EUCOM «[...] Attraverso investimenti relativamente ridotti ma costanti, le
nostre iniziative in Africa avranno un trememdo impatto sulla moltitudine di
problematiche strategiche, di sicurezza, economiche e politiche che dobbiamo
affrontare. Mentre ci sforziamo nel cercare di arginare le condizioni
deterioranti di questo sempre più importante continente, influiamo sulla
possibilità che l’Africa diventi il prossimo fronte nella guerra al terrorismo».
Infatti «La capacità dell’EUCOM di trasformarsi e raggiungere gli obiettivi
americani di sicurezza nazionale dipende direttamente dagli investimenti forniti
in una serie di aree criticamente importanti, come l’edilizia militare, i
programmi di cooperazione per la sicurezza e la struttura dell’intelligence
all’interno del teatro» «[...] Questi investimenti produrranno importanti
risultati, in quanto abbandoneremo le nostre tante basi non essenziali e
consolideremo le nostre forze in comunità più efficienti, come Grafenwoehr/Vilseck,
Ramstein e Spangdahlem in Germania, e Vicenza/Aviano in Italia. Continuiamo nei
nostri sforzi per consolidare le unità geograficamente separate all’interno del
teatro, riunendole all’interno di basi operative durature e di grande portata.
Ciò fornirà maggiori capacità di risposta alle crisi, potenzierà le opportunità
di addestramento congiunto e posizionerà le nostre risorse in modo più efficace
nelle aree delle future missioni.
I recenti impegni a livello globale hanno nuovamente evidenziato il valore
strategico e l’importanza delle nostre Basi Operative Principali in Europa. […]».
All’interno di questo progetto si colloca
chiaramente il destino della futura base di Vicenza, con una richiesta di
implemento dei finanziamenti, che dovranno essere ulteriormente rivisti al
rialzo per l’anno 2008, per lo spiegamento ulteriore di uomini e mezzi della
173ma brigata,.
La chiarezza con cui le stesse fonti del Governo americano illustrano il loro
progetto sembra sfuggire, in una logica indissolubile di complicità
nell’offuscare la realtà all’interno di una chiara volontà di subalternità agli
interessi imperialisti, a quella parte della sinistra che ancora forse non
comprende la reale portata dello scontro in atto in particolare nei paesi
dominati. Abbandonando una visione globale, vincolandosi alle dinamiche
localistiche dei singoli paesi, allo scontro politico interno ed agli
allineamenti imposti dal fronte di guerra interno, non si comprendono realmente
le sinergie e la dialettica tra fenomeni che possono sembrare contraddittori e
spesso lontani dalla nostra pratica, non riuscendo ad inserirli nel quadro
generale delle contraddizioni, fino ad arrivare a legittimare la collocazione
nel quadro del terrorismo qualsiasi azione di resistenza violenta o ritenuta
tale nei confronti dell’aggressione imperialista.
Può essere interessante su questo, al di là di quanto può essere espresso in
termini critici sul cosiddetto movimento contro la globalizzazione e il
neoliberismo, una valutazione di Gustave Massiah, direttore del CRID [Centro di
Ricerca ed Informazione per lo Sviluppo - www.crid.asso.fr] e membro del
Comitato organizzatore del WSF, emersa ai margini del FSM di Nairobi che può
dare alcuni spunti su quanto detto:
«[...] Questo movimento evolve in funzione
delle situazioni. Proponiamo alcune ipotesi.
Prima ipotesi: viene completato il ciclo dei forum sociali mondiali,
quello che è stato cominciato dopo Seattle, ed entriamo in un nuovo periodo. Si
tratta di definire gli elementi del progetto che corrispondono a questo nuovo
periodo. Cambiamenti politici importanti sono in gestazione. Il neoliberismo è
in crisi e che la fase di mondializzazione è probabilmente in corso di
completamento. Arriviamo ai limiti dell’egemonia del capitale finanziario.
L’egemonia economica statunitense è finita. L’aumento in potenza economica della
Cina, dell’India ed anche del Brasile modifica le gerarchie. La guerra
permanente genera nuove contraddizioni e le elezioni negli Stati Uniti
introducono incertezze sulla scelta della guerre... Il movimento politico in
America latina ridefinisce, nella diversità delle situazioni, nuove relazioni
tra movimenti e governi.
Seconda ipotesi: il movimento contro la mondializzazione ha concretizzato
un’alternativa. Sulla base della contestazione del neoliberismo, il movimento ha
affermato il rifiuto del destino ed è passato dalla resistenza alla
controffensiva ed alla capacità di definire alternative. L’orientamento
strategico che si è imposto attraverso i forum è il seguente: all’organizzazione
delle società e del mondo mediante l’adeguamento al mercato mondiale e la
subordinazione ai mercati finanziari mondiali opponiamo l’organizzazione delle
società e del mondo attorno al principio dell’accesso ai diritti per tutti.
Questo principio ha già cambiato la natura dei movimentie; ogni movimento è
evoluto interiorizzando nella sua strategia la priorità data all’accesso ai
diritti per tutti.
Terza ipotesi: il movimento contro la mondializzazione deve opporsi alla
nuova offensiva ideologica. Il neo-conservatorismo costruisce la supremazia del
militare e della guerra permanente e preventiva. La strutturazione dell’economia
si sviluppa sulle discriminazioni ed il razzismo. Si assiste all’aumento
dell’ideologia della sicurezza, dei ritorni identitari, del fondamentalismo,
della tolleranza zero, della criminalizzazione dei movimenti.
Quarta ipotesi: le modalità del movimento contro la globalizzazione si
sono arricchite. Combinano le lotte e le resistenze, le campagne e le
mobilitazioni, le pratiche sociali innovative, l’elaborazione, le alternative,
le proposte di negoziato. Determina la costruzione di una nuova cultura politica
che progredisce nei forum. Il tessuto locale contesta il monopolio delle
decisioni e del pensiero unico; concretizza il passaggio da “TINA” (There Is no
alternative), caro alla signora Tatcher, alla capacità di pensare un altro mondo
possibile.
Quinta ipotesi: Il movimento contro la mondializzazione è un movimento
storico che si iscrive nella durata. Prolunga e rinnova i tre movimenti storici
precedenti. Il movimento storico della liberazione; e da questo punto di vista
le lotte contro la globalizzazione hanno modificato a fondo le rappresentazioni
nord-sud verso la possibilità di un progetto comune. Il movimento storico delle
lotte operaie; e da questo punto di vista il cambiamento verso un movimento
sociale e cittadino mondiale. Il movimento delle lotte per la democrazia a
partire dagli anni 1960-70; e da questo punto di vista il rinnovo
dell’imperativo democratico dopo l’implosione dell’Unione Sovietica nel 1989».
Non riuscendo a superare la visione localista la
sinistra riformista dimostra la totale incapacità di comprendere il legame
indissolubile che lega la lotta contro l’installazione di una base militare alle
forme di resistenza che maturano nei paesi che si troveranno aggrediti, da
quelle armate a quelle di resistenza passiva.
Questa rappresenta sicuramente uno degli aspetti che ci portano o meno a
sentirsi parte di uno scontro di grande portata che in molti paesi sta, dopo che
sembrava che una sconfitta storica avesse minato alle fondamenta la prospettiva
di trasformazione dell’attuale sistema di relazioni, determinando profondi
cambiamenti e infliggendo sonore sconfitte all’imperialismo e ai suoi lacchè. Ma
rappresenta anche una scelta di campo nel quadro della controrivoluzione,
scegliendo o meno di partecipare, secondo le linee guida del nemico, come
soldati della repressione sul fronte interno. Attori nella determinazione di un
quadro di analisi arretrata e compatibile o ancor meglio complice, nel tentativo
di impedire lo sviluppo di una piena autonomia dalle compatibilità riformiste
delle istanze che maturano sui nostri stessi territori, spesso su aspetti
particolari e con forme che vanno rispettate in quanto frutto stesso della loro
autonomia, ma con una forte valenza sul piano generale.
Terminologia:
1) Base Operativa Principale (Main Operating Base, MOB) - Una MOB è una
base in territorio straniero, ben protetta, con personale stazionato in modo
permanente e con ottimo accesso via mare e/o per via aerea, utilizzata per
supportare le forze impiegate in modo permanente.
2) Sito Operativo Avanzato (Forward Operating Site, FOS) - Un FOS è una
struttura “calda” e scalabile, in grado di supportare le operazioni a lungo
termine, con un piccolo contingente permanente di personale di supporto o a
termine. Un FOS ospiterà occasionalmente forze di rotazione e, in molti casi,
disporrà di attrezzature pronte all’uso.
3) Sito di Cooperazione per la Sicurezza (Cooperative Security Location,
CSL) - Un CSL è una struttura della nazione ospitante, con una presenza di
personale americano ridotta o nulla, che può contenere attrezzature pronte
all’uso e/o piani logistici. Un CSL serve sia alle attività di cooperazione per
la sicurezza che agli accessi di emergenza.
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