SENZA CENSURA N.35

luglio 2011

 

L’ondata immensa ha raggiunto le nubi!
La Cina come attrice globale

 

«Fondata nel 1994 da un gruppo di esperti cinesi indipendenti, Dagong si è posta l’obiettivo di diventare un punto di riferimento per la valutazione del merito di credito in alternativa alle grandi agenzie di rating internazionali, e soprattutto americane. Anche se Dagong è una società autonoma e privata, senza quindi legami ufficiali con il Governo cinese, la sua funzione rientra in un preciso disegno strategico elaborato dal regime di Pechino dopo la grande crisi finanziaria del 2008: rompere il potente monopolio mondiale di Moody’s, Standard&Poor’s e Fitch. «Bisogna definire un nuovo sistema di rating obiettivo, equo e ragionevole», ammonì Hu Jintao al G-20 di Toronto. Il messaggio lanciato dal presidente cinese era chiarissimo. Negli ultimi anni, grazie all’immensa quantità di riserve valutarie accumulato, la Cina è diventata la principale finanziatrice dei debiti sovrani di mezzo mondo, compresi gli Stati Uniti e, più di recente, anche l‘Europa.
È più legittimo, quindi, che voglia valutare in prima persona il merito di credito dei Paesi che va a finanziare. Nonostante i rating controversi affibbiati negli ultimi tempi da Dagong, finora nessun Governo ha mai protestato contro le sentenze implacabili dell’agenzia di rating cinese. Più che comprensibile: quale creditore si sognerebbe mai di urtare la suscettibilità del proprio generoso finanziatore?»

 

La cinese Da gong sfida Londra sul rating,

Luca Vinciguerra, IL SOLE 24 ORE, 25/5/2001

 

Paesi emergenti e potenze declinanti

Gli Stati Uniti sono una potenza economica declinante, che non ha minimamente risolto le cause strutturali della grande crisi del 2007. L’UE, che soffre degli stessi mali americani, è sempre più in difficoltà, impegnata nel “salvataggio” di Grecia, Irlanda e Portogallo.

L’UE è incapace di delineare una regia comune nei confronti della “primavera araba” e della guerra alla Libia.

Il Giappone dopo il terremoto e la catastrofe nucleare è alle corde.

I BRIC - acronimo inglese che comprendente Brasile, Russia, India e Cina - in particolare quest’ultima, sono in ascesa. Questo termine, BRIC, fu coniato nel 2001 da Jim O’ Neill di Goldman Sachs che in una relazione prevedeva che i quattro paesi fossero destinati a dominare l’economia mondiale nel mezzo secolo successivo. Un’ intuizione che si sta rivelando esatta.

I BRIC, a cui negli ultimi mesi si è aggiunto il Sud Africa, quindi BRICS, condividono una grande popolazione, un immenso territorio, abbondanti risorse naturali strategiche, e sono caratterizzate da una forte crescita del PIL e della quota di commercio mondiale. Nel loro recente quarto incontro in Cina hanno affrontato differenti tematiche tra cui quello di riformare il sistema monetario internazionale, rivedendo il ruolo del Dollaro. L’ipotesi sul tappeto su cui si discute anche in ambito FMI è quello di una valuta internazionale la cui valutazione venga fatta con un ampio paniere di monete in cui entrerebbe la valuta cinese, per ora, tra l’altro, non convertibile. Le istituzioni di governo internazionale, dominate dalle potenze occidentali, sembrano abbastanza restie a dargli il peso decisionale adeguato, usando anche la propria potenza bellica come contro-bilanciamento del proprio declino economico.

La messa in discussione del dollaro come equivalente generale mondiale è un elemento destabilizzante.

 

L’OPEC e il ruolo dell’Arabia Saudita

Questa contrapposizione non ha assunto ancora la forma di guerra guerreggiata diretta contro “gli emergenti”, ma si ristabilisce anche attraverso lo strumento militare, come la guerra in Libia, una catena di comando imperialista.

Le basi materiali di questa gerarchia si stanno erodendo, anche se le potenze occidentali cercano di limitare il più possibile l’espansione dell’area di influenza delle potenze in ascesa.

Uno degli ultimi contenzioni a livello internazionale, che dà la cifra della posta in gioco, è stato il dibattito all’interno dell’ultimo vertice dell’OPEC, che ha visto l’impossibilità di stabilire un orientamento comune rispetto all’aumento delle estrazioni di greggio, e la contrapposizione che ha visto i paesi della penisola arabica, con l’Arabia Saudita in testa, da una parte, e gli altri produttori tra cui Iran, Venezuela, Algeria, Russia, Libia, (con un rappresentante lealista) dall’altra…

Lo “strappo” successivo dell’Arabia Saudita che ha deciso di aprire i rubinetti, favorendo i paesi consumatori occidentali non sarà senz’altro immune da conseguenze. L’Arabia Saudita è un paese cruciale per la stabilità mondiale, cioè per il mantenimento dello status quo per almeno tre motivi.

Primo, l’A.S. è il maggiore produttore di petrolio e, visto il margine tra la sua produzione effettiva e la sua capacità estrattiva, nonché la sua inclinazione politica, può “aprire i rubinetti” quando richiestole dalle maggiori economie occidentali, cosa che gli altri paesi dell’OPEC non possono permettersi visto il margine molto più ristretto, sia in termini relativi che assoluti, in cui possono operare.

Secondo, il surplus economico ottenuto con le vendite petrolifere, soprattutto grazie all’alto prezzo del greggio, ha permesso la creazione, come nelle altre monarchie petrolifere, di fondi sovrani in grado di iniettare nelle economie di cui sono destinatarie questi flussi di investimento una notevole liquidità, giocando tra l’altro un attivo ruolo di ingerenza economica nei confronti del mondo politico arabo.

Questa montagna di denaro è stata all’origine della creazione di Fondi Sovrani d’Investimento (Sovereign Wealth Funds), in grado di determinare un flusso enorme d’investimenti che può condizionare l’economia mondiale.

Terzo, l’Arabia Saudita è un paese che, all’interno del quadro degli stati facenti parte dell’Iniziativa di Cooperazione dei Paesi del Golfo, funge un importante ruolo di gendarme locale, come hanno dimostrato gli avvenimenti in Barhein e nello Yemen…

 

La guerra del gas

Per tornare alla questione energetica, alcuni dati ci possono dare il senso della sua rilevanza e, in particolar modo, il futuro ruolo del Gas.

Dal 1980 ad oggi, la domanda mondiale di combustibili fossili è aumentata; per ciò che riguarda il petrolio, da 3.000 (mln di tonnellate equivalenti di petrolio) a poco più di 4.000, mentre il gas, la cui domanda era poco più di 1.000 nell’80, è superiore ai 2.500 attuali contro il carbone che da poco meno di 2.000 ora è attorno ai 3.500…

Secondo un recente rapporto dell’ International Energy Agency (IEA) dal titolo “Stiamo entrando nell’era del gas?” la domanda di gas della Cina, che nel 2010 era al pari di quella della Germania, potrebbe entro il 2035 arrivare al livello dell’intera UE, facendo superare a livello globale la domanda di gas rispetto a quella di carbone e avvicinandosi a quella del petrolio.

La guerra del gas, quindi, è appena cominciata…

 

Asia: motore di sviluppo e fucina di contraddizioni

A parità di potere d’acquisto, la quota di PIL mondiale dei paesi emergenti e in via di sviluppo a fine anni novanta era sotto il 40%, mentre ora è di poco al di sotto della metà, mentre i Paesi avanzati che nel ’99 erano poco al di sotto del 65% ora sono poco il 50%.

Se si considera la localizzazione asiatica della maggior parte dei BRIC, è evidente che il motore dello sviluppo capitalistico sia in questo continente e ce lo dicono anche i dati sul traffico marittimo per i quali i flussi del commercio attraverso il Pacifico hanno superato quelli attraverso l’Atlantico.

Non è un caso che “la più lunga guerra persa” come James Petras ha definito il conflitto Afgano, estesosi da tempo al Pakistan, si svolge nel cuore di questo continente, con la presenza militare statunitense permanente (ma non solo) come avamposto della necessità di controllo sull’Asia.

Il continente asiatico non è solo una terra di contesa tra stati, ma anche il teatro di uno scontro di classe molto aspro, con esperienze di processi di transizione, come in Nepal, o di strategie di liberazione, come in India e nelle Filippine.

La stessa Cina è teatro di importanti mobilitazioni di lavoratori che hanno segnato le decisioni prese dal governo cinese.

In questo contributo cercheremo di concentrarci sulle implicazioni dello sviluppo cinese.

 

Corsi e ricorsi della storia

Il premier cinese Wen Jabao lo scorso marzo, aprendo il Congresso del Popolo, l’assemblea che nell’ordinamento cinese svolge la funzione di Parlamento, ha citato le sette grandi flotte inviate dalla dinastia Ming nell’Oceano Indiano, negli anni dal 1405 al 1433.

Vista la nostra crassa ignoranza, dovuta ad una memoria storica euro-centrica, è bene ricordare che

quattro di esse imbarcavano 30.000 uomini e le navi più grandi costruite nei cantieri di Nanjin, comandate dal leggendario ammiraglio Zheng He (San Bao), erano tre volte le imbarcazioni che porteranno Cristoforo Colombo in America. Il loro obiettivo non era il dominio territoriale, ma l’interscambio commerciale…

A metà del secolo, gli ambiziosi progetti imperiali cinesi vennero drasticamente ridimensionati dal pericolo tutt’altro che remoto dell’invasione mongola dei discendenti di Gengis Khan. Oltre a questa minaccia interna, ve ne era una non meno importante, la pressione esercitata dall’interno dai contadini, con un ruolo sociale, una tradizione associativa e una storia di rivolte molto maggiore che i loro “omologhi” occidentali. Sui contadini infatti, tra l’altro, gravava la pressione fiscale che aveva permesso lo sviluppo del progetto commerciale della dinastia Ming e l’ampliamento della muraglia cinese (in funzione difensiva) per un tratto pari alla distanza del confine tra Stati Uniti e Canada da un Oceano ad un altro.

Oggi la minaccia alla Cina non viene più via terra, ma via mare e aria, mentre la soddisfazione dei bisogni primari della popolazione è ancora una esigenza principale di governo delle contraddizioni sociali.

 

Le linee di sviluppo cinesi

L’esempio della potenza navale Ming è valso a giustificare l’aumento annuale del 21,5% del bilancio destinato alla sicurezza interna (circa 95 miliardi di dollari) e del 12,5% di quello destinato alla Difesa, circa 95 miliardi di dollari. Certo, sono solo il 14% della spesa del Pentagono, 697 miliardi di dollari (più 200 se si sommano le spese extra-bilancio per i teatri di guerra), ma c’è da dire che neanche l’apparato di intelligence statunitense è in grado di stimare, se non molto approssimativamente intorno a 95 miliardi, tutte le spese “coperte” della Cina che contribuiscono al perfezionamento della macchina militare.

La Cina è il secondo paese al mondo in rapporto al PIL dopo l’Arabia Saudita - a cui la spesa ammonta al 11,5% - per lo sviluppo militare (5% del Pil).

Le innovazioni in campo bellico si riverberano poi su tutti i settori dell’economia, dalla Ricerca e Sviluppo fino allo spionaggio industriale.

La Cina che ha 2,25 milioni di uomini in armi è la prima potenza mondiale per prodotto industriale, il 23% di quello planetario (come gli Usa nel 2001), mentre l’america è scesa oggi al 15,5%, ed è la prima detentrice di riserve valutarie con 2,4 trilioni di dollari. Ha in pancia qualcosa come 1,160 miliardi di titoli del tesoro statunitensi (Treasury), contro i 1.500 che possiede la Federal Reserve (Fed).

I due colossi finanziari USA, Fanni e Freddie, che da soli garantivano la metà dei 12mila miliardi di dollari di mutui sulle case degli americani - salvati dal tesoro americano con una iniezione di 100 dollari per ciascuno -, avevano venduto alla Cina qualcosa come 376 miliardi di dollari in titoli, risultando il più grande sottoscrittore (1/3 circa) dei 1.305 miliardi di dollari di titoli dei due giganti finanziari.

Mentre la Aig, la più grossa assicurazione americana, il cui il titolo è il più presente nei piani di risparmio 401(k) (la pensione integrativa più comune negli Usa), salvata da un prestito da 85 miliardi di dollari, aveva come uno dei suoi maggiori sottoscrittori proprio la Cina.

USA e Cina sono legate quindi a doppio filo, l’una dipende dai flussi finanziari dell’altra; per la Cina la “sicurezza” dei propri investimenti negli States è prioritaria e non a caso ha creato una propria agenzia di rating, balzata agli onori delle cronache occidentali per aver abbassato prima il valore dei buoni del tesoro americani e poi il debito sovrano della Gran Bretagna.

La Cina ha una decennale strategia di cooperazione con l’Africa e il Sud America del tipo “infrastrutture chiavi in mano costruite da nostra manodopera in cambio di vostre materie prime”, detenendo di fatto il monopolio delle terre rare che sono decisive nelle leghe avanzate come nell’elettronica e nella componentistica del futuro. Eppure, nonostante la strategia di difesa navale, di sviluppo dell’industria aereo-spaziale, dell’avanzamento nella realizzazione di mezzi corazzati la potenza cinese è soprattutto economica e commerciale. Ha coinvolto tutti i paesi dell’area asiatica (Corea del Sud, Vietnam, Thailandia, Giappone) strappandoli all’influenza USA, sostituendo il flusso di esportazioni verso l’america per soddisfare il proprio fabbisogno interno, e ponendo le basi per l’egemonia monetaria della propria valuta come vettore unico di scambio. Ha investito in paesi detentori di materie prime dimenticati dall’Occidente o considerati pericolosi per il loro ordinamento politico. Tiene per il collo gli States rivalutando lo Yuan solo di centesimi, invece che del 20% come vorrebbero a Washington.

Non da ultimo, è la principale destinataria di esportazioni della Germania; proprio alla Cina la “locomotiva” tedesca deve la propria invidiabile posizione economica in ambito UE.

Sono più o meno noti gli investimenti cinesi nei paesi Ue in crisi.

 

Le sfide del Dragone

L’incremento delle importazioni e la “sostenibilità” del proprio sviluppo, dal punto di vista delle esigenze della manodopera urbanizzata, dell’impatto ecologico e della necessità di materiale combustibile esportato (petrolio carbone e gas), sono tra le maggiori preoccupazioni del governo cinese. Per questo, il 12° piano quinquennale varato dal Congresso Nazionale abbassa il tasso annuale di crescita del PIL dal 10,6% del 2010 verso tassi dell’8% annuo, alza i salari minimi e gli standard sanitari e sociali, aumenta i le tasse sui veicoli leggeri ad alta emissione, ecc.

Le possibilità di avanzamento sono dovute alla capacità di saper governare le contraddizioni createsi con lo sviluppo economico impetuoso (in particolar modo delle masse contadine di recente urbanizzazione e dalle spinte centrifughe ai suoi confini) oltre alla tutela delle rotte commerciali che portano materie prime e combustibile, come dimostra il ruolo tutt’altro che secondario rispetto alla cooperazione internazionale e alla lotta contro la pirateria.

Tra i pericoli legati all’urbanizzazione c’è la minaccia della creazione di una bolla immobiliare, cioè di una sopravalutazione del prezzo degli edifici che, se scoppiasse, danneggerebbe gli investimenti degli enti locali costruiti grazie ai finanziamenti bancari dando come garanzia sui prestiti gli appezzamenti di terra amministrati.

Un crollo che travolgerebbe con sé, insieme agli enti locali, gli istituti di credito e il settore dell’edilizia.

L’abbondante liquidità, concessa sotto forma di prestito dopo la crisi degli anni scorsi, è andata ad alimentare anche l’industria delle costruzioni, con i prezzi delle abitazioni che sono aumentati di una media poco sotto il 20%..

L’impatto sull’economia del possibile scoppio della bolla è argomento della discussione sulla solidità del sistema bancario cinese che vede contrapposta l’agenzia di rating Fitch, che ipotizza una crisi sistemica imminente legata al crollo del real estate cinese, e l’agenzia cinese Dagong, per cui le banche del paese sono molto liquide e hanno un sufficiente livello di capitalizzazione.

Il governo cinese ha recentemente messo a disposizione 463 miliardi di Dollari per salvare dal fallimento i “veicoli” finanziari controllati da vari enti locali. L’operazione ricorda tanto la Tarp del 2008, con la differenza che, fatte le debite proporzioni, quei 463 miliardi valgono 1,5 volte il salvataggio attuato da Henry Paulson negli USA. «È pensabile che, date queste spese,» - si chiede Walter Riolfi, in L’avvertimento cinese: basta con la liquidità, Il Sole 24 Ore del 8/6/2011 - «la Cina continui ad espandere le sue riserve in dollari?»

 

Elenco degli articoli sulla Crisi pubblicati da Senza censura

 

SENZA CENSURA N. 29 - GIUGNO 2009

DALLA LUNGA CRISI ALLA GRANDE CRISI [Prima parte]

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc09_2901.htm

 

SENZA CENSURA N. 30 - NOVEMBRE 2009

DALLA LUNGA CRISI ALLA GRANDE CRISI [Seconda parte]

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc09_3002.htm

 

SENZA CENSURA N. 32 - GIUGNO 2010

EUROCRACK! La crisi nell'eurozona

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc10_3201.htm

 

SENZA CENSURA N.33 - NOVEMBRE 2010

LA CRISI EUROPEA

E le alternative della sinistra. Un contributo di Iñaki Gil de San Vicente

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc10_3305.htm



http://www.senzacensura.org/