SENZA CENSURA N.34

marzo 2011

 

Resistenze mediterranee

Allargamento NATO, integrazione euro-mediterranea, sviluppo della resistenza

 

“La rage d’aller jusqu’au bout au delà où veut bien nous mener la vie”

Keny Arkana, La Rage, 2006

 

Dalla seconda metà di dicembre il mondo arabo è in subbuglio.

Le attuali mobilitazioni interessano un territorio che va dal Maghreb, attraversa il Mashrek e giunge fino ai paesi del Golfo, con una popolazione di più di 350 milioni di abitanti, di cui 190 sotto i 24 anni, i cui ¾ si trovano senza lavoro e senza futuri sbocchi occupazionali.

Quest’area e la popolazione che la abita è stata attraversata da differenti processi negli ultimi quindici anni circa, dinamiche che definiscono il quadro d’analisi che vogliamo cercare di fornire.

Partiamo, quindi, da un lavoro di ricerca che ha caratterizzato sin dagli esordi le riflessioni della rivista, con un’inchiesta che ha anche monitorato i recenti processi di crescita soggettiva della classe in questi contesti, fondamentali per comprendere i limiti e le prospettive dell’attuali mobilitazioni.

A questo lungo lavoro di “scandaglio”, che qui cerchiamo di sintetizzare ed integrare, rimandiamo elencando a fine articolo i vari contributi apparsi su Senza Censura, consultabili nella versione on line della rivista sul sito omonimo.

 

La Nato verso la “sponda Sud” del Mediterraneo

Una prima direttrice d’analisi è costituita dall’allargamento della NATO verso la sponda Sud del Mediterraneo, successiva alla guerra nella ex-Jugoslavia a fine anni Novanta, che ha interessato, insieme al coevo allargamento all’Est Europa, tutti i Paesi del Maghreb.

La penetrazione a sud è avvenuta attraverso forme sempre più intense di collaborazione che cooptassero i Paesi del Maghreb e non solo all’interno della strategia dell’Alleanza Atlantica, con l’estensione della rete delle basi e il correlato supporto logistico, la fornitura di armi, l’addestramento congiunto, l’elaborazione condivisa di una prospettiva contro-insurrezionale basata sulla cosiddetta guerra al terrorismo, indirizzata “ufficialmente” contro le organizzazioni della resistenza islamica e verso la “normalizzazione” dei rapporti con l’entità sionista.

In realtà la legislazione anti-terrorismo non ha solo legittimato la “caccia agli islamici” e le pratiche di estradizione extragiudiziaria da parte di USA e alleati, tra cui l’Italia, ma ha riempito le prigioni dei regimi arabi cosiddetti moderati di dissidenti, e non solo, al di là del loro orientamento politico.

La convergenza con la politica Israeliana, ha scavato un solco sempre più profondo tra governanti e governati, rendendo questa frattura evidente nel corso delle mobilitazioni contro la guerra all’Iraq nel 2003, contro l’aggressione israeliana al Libano nell’estate dell’estate 2006, contro la recente operazione Piombo Fuso a Gaza: momenti in cui l’opposizione politica si è potuta ri-organizzare all’interno di un processo di mobilitazione di massa, come è accaduto in Egitto con Kefaya.

 Scrivevamo nel febbraio del duemila: «La lista di cui l’Egitto fa parte è stata discussa fin dal ’95, e ora rappresenta un tassello molto importante nella nuova strategia. Una strategia che comunque, oltre ai colloqui, ha avuto da tempo passaggi concreti. L’Egitto, ad esempio, ha partecipato alle operazioni in Bosnia, e anche in passato, nelle operazioni di peace-keeping dell’ONU usava i codici di riconoscimento NATO, così come nelle esercitazioni congiunte con diversi paesi NATO, come gli Usa, l’Italia, la Germania e la Francia.».

Buona parte del flusso di energia che alimenta l’apparato produttivo e i consumi delle potenze occidentali passa per l’euro-mediterraneo, il prevenire dell’aprirsi di uno scenario di interruzione delle forniture energetiche rientra sempre più nei piani della Nato come è confermato dagli ultimi vertici dell’Alleanza e dalla cornice del nuovo “concetto strategico” recentemente illustrato a Lisbona.

 

Le geometrie variabili dell’intervento militare multinazionale

Il livello di collaborazione in atto con la cosiddetta attività anti-pirateria nello specchio d’acque tra il Corno d’Africa e lo Yemen è un precedente importante di quella politica di “global management” auspicata dai profeti del multi-lateralismo statunitense, in grado di far convergere su una minaccia specifica uno spettro ampio di Paesi.

Come Fidel Castro, così come altri analisti, hanno brillantemente messo in luce riguardo allo scenario di crisi libica, l’opzione d’intervento militare diretto della NATO è all’interno dello spettro delle possibilità di gestione della crisi.

Occorre ribadire, come per esempio l’intervento ONU in Libano è stato lo sbocco di una lunga attività di accerchiamento del Paese dei Cedri, iniziata ben prima dell’invasione sionista e della morte di Hariri, concretizzandosi con l’occupazione militare multinazionale di una porzione del territorio che era stato il fulcro della resistenza all’aggressione israeliana.

Al di là della geometria variabile e variante della varie “coalizioni” internazionali, la carta dell’aggressione militare diretta nella forma della guerra “guerreggiata” è sempre giocabile dall’imperialismo, considerando che l’addestramento militare congiunto a livello di paesi e di forze armate, la rapidità di giungere in un teatro operativo “altro” avendo le condizioni logistiche per farlo sono state le priorità su cui si sono da anni modellate le esercitazioni multinazionali…

Inoltre le menzogne di guerra sono da anni un dato strutturale dell’informazione con l’elmetto pronta a “fabbricare” le necessità di un intervento “risolutorio” manu militari.

Comunque, per un quadro più analitico di ciò che è successo in Libano, che può aiutarci a capire come “gestire una crisi”, rimandiamo alle riflessioni sviluppate sul numero 21 della rivista del novembre del 2006.

 

L’integrazione euro-mediterranea. El Dorado Europeo

Una seconda direttrice d’analisi è la cosiddetta integrazione euro-mediterranea, in realtà un processo che è stato descritto come “seconda colonizzazione”, un nuovo colonialismo non più diretto da singole potenze europee tese a spartirsi i territori nord-africani istituendo colonie, protettorati e regimi fantoccio ma gestito da un polo imperialista in formazione, quello europeo, che utilizza il “ricco” nord africa e i territori “tradizionali” della sua penetrazione come testa di ponte per il resto del continente. Questo era possibile grazie all’establishment politico e i suoi apparati di sicurezza, cioè una frazione della borghesia compradora che “deteneva”, in maniera subordinata ai progetti europei, parte del potere economico.

Come i cosiddetti processi di transizione stanno mostrando, non si può parlare di un blocco sociale dominante omogeneo e monolitico per questi paesi, ma di frazioni dominanti della borghesia in concorrenza tra loro, con settori trainanti in grado o meno di creare un consenso in più o meno ampie fasce sociali, in contesti in cui l’esercito ha un peso rilevante anche in ambito economico, come in Egitto.

Imprenditori a capo di multinazionali, facenti parte dell’élite economica globale, ma anche rampolli che vantano studi in prestigiose università occidentali sono spesso il “nuovo che avanza” nel cambiamento delle relazioni di potere politico all’interno degli stati toccati dalle mobilitazioni sociali: evolution not revolution, direbbero i think thanks di Washington.

È chiaro che i vari dittatori mediterranei erano legati a doppio-filo con l’Europa…

Il governo francese, per esempio, che è il primo partner economico della Tunisia (il secondo è l’Italia) durante le prime settimane delle mobilitazioni a Dicembre, ha espresso pubblicamente il proprio sostegno a Ben Alì ed il ministro degli esteri ha dichiarato che la Francia avrebbe “prestato” il proprio bagaglio di conoscenze poliziesche per aiutare ex-dittatore a mantenere l’ordine!

Nelle mire imperialistiche europee questo maghreb “allargato” avrebbe dovuto costituire una immensa zona di libero scambio.

Scrivevamo nell’ottobre 2001: «Da oltre cinque anni l’Unione Europea è impegnata a costruire una zona di libero scambio, la sua area di influenza economica e politica, la ZLS euromediterranea per l’appunto. Se tutti gli accordi verranno ratificati, la zona includerà entro il 2010, da un parte i paesi membri dell’Unione, dall’altra 12 paesi della riva sud e est del mediterraneo: Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Siria, Giordania, Libano, Israele, Autorità Palestinese, Cipro, Malta, Turchia». Una ZLS in cui i settori manufatturieri autoctoni sotto i colpi della globalizzazione sarebbero dovuti scomparire, i settori ancora a gestione pubblica, in particolar modo le infrastrutture, le comunicazioni ed i servizi avrebbero dovuto essere privatizzati, così come le banche, e la produzione agricola avrebbe dovuto perdere la possibilità di assicurare la sicurezza alimentare ma essere votata all’esportazione.

Tutto questo quindi lasciando mano libera alla penetrazione del capitale europeo e alla sua facoltà di investimento, alla sete di materie prime soprattutto per ciò che riguarda l’approvvigionamento energetico, con la possibilità di sfruttare una manodopera a basso prezzo pressata dalla disoccupazione e dalla necessità di immigrazione, in estrema difficoltà ad affermare anche le minime tutele sindacali, e con le sue espressioni politiche costrette alla clandestinità.

Vale la pena ricordare alcuni progetti infrastrutturali e industriali che stanno designando la vertebratura dell’integrazione euro-mediterranea, ricorrendo ad un contributo precedentemente pubblicato sul numero 26 della rivista: «A Tangeri, in Marocco, sta sorgendo il più grande porto container del Mediterraneo, il Tanger Med, un miliardo di euro di investimenti, 60 km di autostrada, 40 km di ferrovia.

Non si tratta solo di uno scalo container, ma di un complesso che conterà tre “zone franche”, destinate a creare 150.000 posti di lavoro.

Le macchine di movimentazione container prodotte in Cina sono arrivate nella primavera di quest’anno e hanno bracci con una estensione di 65 metri!

Vicino al porto saranno collocate le lavorazioni industriali: il tessile, la meccanica, la componentistica auto.

Dopo la trasformazione, le merci saranno etichettate “Made in Morocco” e spedite verso l’Europa o gli Stati Uniti, senza diritti di dogana né quote grazie agli accordi di scambio tra Marocco con UE e USA.

Si tratta del più gigantesco esperimento di de-localizzazione produttiva nel Nord Africa, con l’intento esplicito di fare del Marocco una sorta di Messico degli Europei, con le città dello Stretto, Tangeri e Tetouan, nel ruolo di quelle a Sud del Rio Grande, famose per le maquilladoras al servizio dell’economia statunitense, famigerate per condizioni schiavili vissute dai lavoratori.

La Renault-Nissan aprirà qui il più grande stabilimento dell’Africa: un miliardo di euro, 6 mila posti di lavoro, 30 mila nell’indotto.

Altri concorrenti nella sponda sud del Mediterraneo saranno il porto di Damietta in Egitto e il container terminal di Port Said…

Il progetto di Damietta prevede la realizzazione di un terminal che a regime, nel 2011, dovrebbe movimentare 4 milioni di TEU, comprendente la costruzione di banchine per quasi 2 km e mezzo in grado di accogliere navi fino a 10.500 TEU.

L’accordo di concessione è stato raggiunto tra l’Autorità Portuale di Damietta la KGLPI, società del gruppo kuweitiano KGL.» (Genova: città, porto e lavoratori.

Spunti di discussione sulle trasformazioni nel contesto euro-mediterraneo, SC n.26, luglio 2008)

 

Un civile sviluppo “sicuritario”

In questo contesto la co-gestione del controllo dei flussi migratori all’interno del Mediterraneo avrebbe dovuto rivestire un ruolo centrale nelle cosiddette politiche di sicurezza dell’area.

Si sarebbe dovuta sviluppare una politica securitaria in grado di stroncare sul nascere o indirizzasse il potenziale di conflittualità del proletariato dell’area verso i lidi delle compatibilità politiche delle “riforme” all’interno della gerarchia dei rapporti di tipo neo-coloniale che non trasformassero perciò alla radice questo sistema di dominazione politica, sfruttamento economico e subordinazione culturale, tutto questo attraverso le varie forme di cooptazione create nell’ambito della cooperazione della “società civile” con le varie ONG al seguito.

«Una gestione che non si limita al Military Crisis Management (MCM), in quanto rimane sostanzialmente invariata la capacità collettiva della Ue di disporre di uno strumento militare adeguato, insieme a quello politico, rimanendo vincolata alla capacità NATO e quindi subalterna all’apparato militare USA e GB, ma affronta il terreno in cui l’Europa ha cercato di far pesare la propria forza di penetrazione: la Civilian Crisis Management (CCM). Quando parliamo di CCM si intende azioni di intervento di gestione delle crisi violente o meno ad opera di personale non militare. Questo si lega al ruolo del Foro Civile Euromediterraneo [nato nell’ottobre del 2001 a Bruxelles, a cui partecipavano 27 ONG ed esperienze sindacali, volto a instaurare un dialogo propositivo e costruttivo con gli organismi, rappresentanti la borghesia europea e i suoi interessi] e al suo ruolo all’interno della gestione delle contraddizioni» (NATO e Mediterraneo, SC n.8, giugno 2002).

 

Un processo interrotto?

Se il processo di integrazione euro-mediterranea è stato avviato ed ha dato i suoi nefasti frutti, le attuali mobilitazioni possono metterlo in discussione, mentre alcuni altri fattori hanno inclinato le linee di tendenza di questo nuovo colonialismo, costringendo le potenze occidentali ad una difficile gestione delle contraddizioni esplose prima in Tunisia e in Algeria, poi in Egitto ed nello Yemen…

Il ruolo sempre più attivo della Cina in Africa come attore continentale alternativo al secolare protagonismo europeo e alle volontà egemoniche statunitensi insieme all’esplodere della crisi nel vecchio continente hanno messo in discussione la possibilità dell’Europa di ergersi a polo imperialista predominante nell’area.

La mancata risoluzione del conflitto israeliano-palestinese, l’invasione e poi la mancata “pacificazione” dell’Iraq, la sconfitta israeliana in Libano, la più marcata aggressività USA nei confronti dell’Iran e dello Yemen, hanno alimentato uno sentimento anti-americano e anti-sionista nella popolazione, anche grazie ad una maggiore consapevolezza dovuta ad un migliore grado di istruzione e ad una più acuta percezione della situazione politica attraverso mezzi di comunicazioni come TV satellitari e siti internet che sono riusciti a evadere la censura dei singoli stati nazionali. 

Non da ultimo l’impennata dei prezzi degli alimenti basilari dovuta alla speculazioni finanziarie sui futures dei vari prodotti agricoli, hanno avuto già da qualche anno un impatto devastante su una popolazione urbanizzata che già vive sotto la soglia di povertà, in stati che hanno abbandonato da tempo l’obiettivo della sovranità alimentare.

 

Le classi pericolose

Bisogna notare che i prodromi delle attuali mobilitazioni sia in Tunisia che in Egitto devono essere ricercati nello sviluppo di importanti lotte operaie che sebbene ferocemente represse hanno lasciato un segno profondo in entrambi i contesti, permettendo alle opposizioni reali a questi regimi di coagularsi e di prevedere di potere godere di un seguito ben maggiore di quello che una feroce politica pluridecennale di annientamento avevano fortemente ridimensionato.

È interessante rileggere alcuni passaggi riguardo alla situazione egiziana dell’articolo: Rebel against America. Imperialismi e lotte di classe nel Mediterraneo, apparso sul numero 17 della rivista, luglio-ottobre 2005.

« L’Egitto registra un profondo processo di privatizzazione all’interno del settore tessile, uno dei centrali del paese. Le proteste hanno visto dalla metà di febbraio ai primi di maggio lo sciopero dei lavoratori del settore indirizzate contro la stessa General Federation of Trade Unions (GFTU), organizzazione sindacale pro-governativa che ha accettato la svendita della Esco ai capitali privati, azienda di stato il cui numero di lavoratori impiegati è passato dai 24.000 del 1980, ai poco più di 3.500 attuali, a cui si devono aggiungere i 650.000 prepensionamenti adottati all’interno della privatizzazione degli altri settori pubblici. In un articolo pubblicato sul periodico Al-Ahram Weekly del 18 marzo è stato affermato che, in questi ultimi mesi, è stata data una decisa accelerata al programma di riforme economiche egiziane. “Il ministro degli Investimenti Mahmoud Mohieddin - scrive ancora Abdel-Razek - ha recentemente confermato che le compagnie statali privatizzate negli ultimi sei mesi sono 18, per un totale di un miliardo di lire egiziane. Un risultato eccezionale, se confrontato con le 15 privatizzazioni attuate dal 2002 al 2003”.

L’opposizione egiziana sia islamica, sia di sinistra, critica fortemente l’attacco americano verso l’economia del paese in particolare facendo riferimento al continuo trasferimento da parte Usa di capitali e sostegno verso compagnie che operano nel paese come ONG. Le critiche si sono inasprite ulteriormente dopo la decisione da parte dell’ambasciata americana del Cairo di finanziare 6 ONG con un milione di dollari per il monitoraggio delle elezioni, definendo inaccettabile che il popolo egiziano accetti aiuti da chi è responsabile di crimini in tutta la regione. Attraverso un accordo tra Egitto e l’United States Agency for International Development (USAID) del 1998, gli Usa hanno destinato dai 38 ai 42 milioni di dollari al supporto per le attività della “società civile” e ONG.

La situazione sopra descritta ha fatto sì, che nell’ultimo anno, prendesse vita in Egitto un movimento d’opposizione che si è dato il nome Kefiya (Basta). Kefiya riunisce al suo interno dall’organizzazione fuorilegge dei Fratelli Mussulmani, a quelle della sinistra radicale egiziana. Il suo scopo dichiarato è di mettere in crisi il potere di Mubarak e intraprendere un percorso di cambiamento autonomo dalle influenze esterne. L’alleanza tra forze islamiche, della sinistra e nasseriane è ritenuto fondamentale ma, nello stesso tempo, è evidenziato un disaccordo sulle questioni strategiche.

Secondo alcuni membri della sinistra egiziana è bastato il lancio del movimento per vedere rinascere nelle strade un attivismo che non si rilevava da più di 25 anni, mettendo le basi per un indebolimento progressivo del governo Mubarak e di conseguenza la possibilità di vedere realizzate le politiche americane nel paese. Non si parla solo degli scioperi nelle fabbriche, ma delle lotte dei contadini per l’assegnazione della terra, della creazione di nuove organizzazioni della sinistra radicale che permettano di uscire dalla clandestinità ideologica imposta da molti anni. La situazione della sinistra radicale egiziana pone il problema che per i prossimi due anni sarà molto improbabile che questa, in assenza di un partito comunista capace di rappresentare la risposta alla domanda di emancipazione da parte delle classi sfruttate, possa rappresentare la guida di questo movimento, anche se questa fase può rappresentare il momento ideale per superare i conflitti al suo interno e rilanciare una prospettiva per il popolo egiziano e non solo.

Secondo quanto riportato da una intervista durante la III Conferencia de El Cairo Contra la Globalización, el Imperialismo y el Sionismo a due membri della sinistra egizia, Seif al-Dawla femminista membro del movimento 20 de Marzo e a Kamal Jalil portavoce dei Socialistas Revolucionarios egiziano e direttore del Centro de Estudios Socialistas, la volontà di cambiamento si scontra con una repressione che investe sia la sfera organizzativa, sia quella della mobilitazione. Il Movimento 20 Marzo prende il nome dalla data d’inizio dell’aggressione contro l’Iraq, occupandosi di denunciare gli oltre 2000 casi di tortura contro i 20.000 prigionieri politici detenuti nelle carceri egiziane.

Il potere in Egitto ritiene legali solo quelle organizzazioni che si accordano precedentemente con lui. Gli intervistati, come appartenenti alla sinistra, sono convinti che sia necessario continuare ad organizzarsi clandestinamente senza dover scendere a nessun compromesso con il governo Mubarak. I lavoratori dei nuovi distretti industriali, quelli frutto degli accordi sulle Qualificated Industrial Zone (QIZ), non hanno possibilità di organizzarsi al di fuori di quelle organizzazioni sindacali controllate dal governo che i due intervistati definiscono i “comisarías de trabajadores”. Affrontando il progetto del movimento Kefiya, ritengono pericoloso limitarsi alle richieste di cambiamento democratico, in quanto nel progetto devono trovare risposta il tema del lavoro per 6 milioni di disoccupati, l’unione delle rivendicazioni di cambiamento politico con quelle di giustizia sociale, il percorso di unione delle forze della sinistra, pur continuando a partecipare attivamente insieme agli altri gruppi per un cambiamento politico nel paese.

La pesante repressione del governo Mubarak ha colpito in maniera sistematica, in particolare in questa fase, i membri dell’organizzazione dei Fratelli Mussulmani. A seguito degli attacchi contro i turisti al Cairo si è scatenata una caccia all’uomo che ha portato a vere e proprie deportazioni ed al rilancio, da parte governativa, dell’attualità della legislazione d’emergenza promulgata nel 1981.

Alla fine di marzo le manifestazioni popolari organizzate da Kifaya erano state bandite. Anzi, proprio gli arresti compiuti in occasione delle precedenti manifestazioni (dove si sono registrati diversi scontri), hanno rafforzato la propaganda a favore della legge di emergenza nazionale. »

In questo caso, come per lo Yemen, lo spettro delle formazioni islamiche, è un pretesto per legittimare a livello internazionale l’establishment: sono la materia sociale esplosiva e le componenti politiche che riescono ad orientarla il vero nemico».

 

Imperialismo. Game over?

Non potendo ancora fornire un quadro esaustivo delle mobilitazioni, rispetto in particolare alle forze sociali che l’hanno promosse, al ruolo che le organizzazioni hanno avuto e agli esiti immediati a cui hanno portato, ci limitiamo a segnalare come la controrivoluzione, sebbene colta di sorpresa rispetto alla tempistica e all’ampiezza del fenomeno, andasse da tempo elaborando le modalità di governare un processo che in parte era stato brillantemente anticipato dai vari Think Tanks della politica estera americana, nonostante le varie declinazioni paese per paese siano differenti e adeguate alla contingenza.

Le analisi di James Petras sulle manovre della influente lobby sionista in USA e le quelle di Adrew Gavin Marshall sulla repressione strategica americana del “Risveglio Arabo” (America’s Strategic Repression of the “Arab Awakening”) danno un quadro analitico del fenomeno delle difficoltà e delle prospettive della “promozione della democrazia”, degli attori made in USA di tale politica, delle frizioni con gli stessi regimi e con gli alleati europei.

Se un approccio eccessivamente dietrologico non tiene in considerazione l’autonomia di una componente sociale operaia e popolare delle mobilitazioni con i suoi obbiettivi ed un’esperienza già maturata di scontro “aperto” con il blocco sociale dominante, pensare che al flop dell’intelligence seguisse un’abdicazione degli apparati della controrivoluzione occidentale, messi in scacco dalla rivolta è fuorviante. Le lotte dei proletari della “periferia integrata” non fanno che confermarci tutta l’attualità della prospettiva mediterranea, perché la posta in gioco va al di là del cambiamento della cornice in cui si sviluppano i rapporti sociali imperialisti, quindi coloniali, ma riguarda la loro trasformazione nel processo di organizzazione delle classi subalterne e delle componenti politiche che la compongono.

 

Articoli di Senza Censura su Mediterraneo e dintorni Per la comodità dei nostri lettori, abbiamo redatto un elenco dei materiali pubblicati nei numeri precedenti della rivista e ora disponibili sul nostro sito.

 

Senza Censura n. 1/2000

Allargamento della NATO a Sud

Brevi spunti di riflessione

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc00_0107.htm

 

Senza Censura n. 4/2001

Lega Araba a Accordi antiterrorismo

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc01_0404.htm

 

Senza Censura n. 5/2001

Processi di integrazione

Alcune riflessioni sulle strategie dell'imperialismo nell'area mediterranea

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc01_0502.htm

 

Senza Censura n. 6/2001

Zona di Libero Scambio euromediterranea

Una frontiera a geometria variabile… a seconda delle esigenze dell'Unione Europea

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc01_0615.htm

 

Senza Censura n. 6/2001

Algeria: lotte in Kabilia

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc01_0617.htm

 

Senza Censura n. 8/2002

Nato e Mediterraneo

Progettualità e conflitti nelle strategie di infiltrazioni imperialiste nell'area.

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc02_0803.htm

 

Senza Censura n. 8/2002

La lunga mano sul Mediterraneo

Avanzamento del processo di integrazione Euro-Mediterraneo.

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc03_1103.htm

 

Senza Censura n. 14/2004

Tra il Grande Middle Est e gli interessi europei nel Mediterraneo

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc04_1401.htm

 

Senza Censura n. 16/2005

Nato ed Europa

I grandi esportatori di democrazia nel Mediterraneo

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc05_1602.htm

 

Senza Censura n. 16/2005

Conferenza per i finanziamenti

Nord-Africa Medio-Oriente

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc05_1603.htm

 

Senza Censura n. 17/2005

Rebel against America…

Imperialismi e lotte di classe nel Mediterraneo

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc05_1702.htm

 

Senza Censura n. 18/2005

Mediterraneo Mare Nostrum o Mare Loro?

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc05_1801.htm

 

Senza Censura n. 18/2005

Comunicato delle associazioni marocchine

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc05_1802.htm

 

Senza Censura n. 21/2006

Mediterraneo allargato: tra imperialismo e resistenza

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc06_2101.htm

 

Senza Censura n. 21/2006

Campagna “No al Mediterraneo del Capitale, no alla guerra, alternative a “Barcellona + 10”*

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc06_2102.htm

 

Senza Censura n. 21/2006

Contro la riunione del consiglio della NATO a Rabat il 6 ed il 7 aprile 2006

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc06_2103.htm

 

Senza Censura n. 22/2007

Il Fronte Africano come parte della strategia di guerra globale

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc07_2202.htm

 

Senza Censura n. 23/2007

USA for Africa…

Nasce il Comando unificato USA per l’Africa e si intensificano le piattaforme di cooperazione militare statunitensi con i Paesi Africani

http://www.senzacensura.org/public/rivista/sc07_2306.htm



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